Archivi autore: Feliciano Della Mora

BRESCIA. Riscoprire la pittura di Giacomo Ceruti.

La montagna negli scatti di Sella, Adams, Chambi e Hütte, la fotografia contemporanea di David LaChapelle, due ricognizioni storico-artistiche sul passato della città: il programma della Fondazione Brescia Musei per il 2023, che vede la Leonessa capitale della cultura insieme a Bergamo, è diversificato. Tra tutte spicca l’esposizione su Giacomo Ceruti (Milano, 1698-1767), curata al Museo di Santa Giulia da Roberta D’Adda, Francesco Frangi e Alessandro Morandotti. Ecco ragioni, caratteristiche e propositi della mostra nelle parole dei curatori.

Come è cambiata la percezione dell’opera di Ceruti nei secoli? In che modo la mostra affronta questo tema?
Alessandro Morandotti: Giacomo Ceruti è oggi riconosciuto come uno dei protagonisti della storia dell’arte del Settecento europeo in virtù della sua produzione di ritratti, nature morte e soprattutto di scene di vita popolare. Queste specializzazioni, a causa della gerarchia dei generi artistici di eredità umanistica, non gli hanno permesso di entrare nel canone dei pittori più noti della sua epoca. Nonostante il suo grande successo in vita, Ceruti venne per questo dimenticato a lungo dopo la sua morte fino alla riscoperta nel corso del Novecento. Ad avvio della mostra, abbiamo seguito questa rinascita, restituendo il ruolo di Roberto Longhi; il grande studioso ha legato al nome di Ceruti opere finite nel catalogo di altri artisti, radicandone le scelte entro la tradizione della pittura lombarda della realtà.

Quali aspetti meno conosciuti del Ceruti emergono dal percorso espositivo?

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Alessandro Morandotti: La tradizione degli studi su Ceruti è ormai ben consolidata, a partire dalla monografia in gran parte ancora attuale di Mina Gregori (1982). Abbiamo quindi innanzitutto radicato le scene di vita popolare di Ceruti in una rete di fatti precedenti e coevi molto serrata e credo molto nuova per il pubblico oltre che per gli studi; al contempo ampio spazio è destinato alla produzione del Ceruti più internazionale della piena maturità, anni in cui il pittore si confronta con la pittura veneta e francese a lui coeva restituendo nel suo caratteristico “dialetto” lombardo questi incontri. Non è un tradimento della realtà, ma solo un’apertura di orizzonti di uno dei più grandi sperimentatori del Settecento italiano.

L’intreccio di biografia e opera è particolarmente fitto nel caso di un autore quale Ceruti. Come si dipana questo filo lungo la mostra?
Francesco Frangi: Nella vita di Ceruti ci sono due passaggi cruciali. Il primo è il precoce trasferimento da Milano a Brescia, all’inizio degli Anni Venti del Settecento. Quando giunge a Brescia il pittore si specializza subito nel ritratto e nelle scene pauperistiche, mettendo a punto un linguaggio fortemente orientato in senso naturalistico che ottiene il gradimento della committenza locale. Tutta la prima parte della mostra ripercorre questa stagione, alla quale fa seguito quella che si apre con il secondo episodio decisivo della biografia di Ceruti: il soggiorno in Veneto tra il 1736 e il 1739. A partire da quell’esperienza la pittura cerutiana si apre verso nuovi orizzonti. Le scene di genere diventano più rasserenate, a volte ironiche, i ritratti più scenografici, la tavolozza si schiarisce. E all’interno della mostra, di conseguenza, il clima muta vistosamente.

Come si inserisce l’opera di Ceruti nel lungo e rivoluzionario processo che porta dall’arte antica agli stravolgimenti dell’Ottocento, fino al cambio di paradigma che avverrà a fine Ottocento/inizio Novecento? Il suo pauperismo è anticipatore di mutamenti a venire?

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Francesco Frangi: Ceruti rimane un uomo del suo tempo. Non bisogna guardarlo come un realista ottocentesco o moderno. Le sue tele non sono fotogrammi della realtà: i soggetti che mette in scena rispecchiano una tradizione ben consolidata, nata più di un secolo prima di lui. Le ragioni della grandezza dell’artista sono altre e risiedono nella capacità di rinnovare per così dire “dall’interno” quel repertorio, infondendo nelle opere una verità e un sentimento di empatia nei confronti dei ceti umili che non hanno precedenti. È per questo che chi osserva oggi i suoi dipinti giovanili ha la sensazione che essi restituiscano, come delle maestose istantanee, le concrete situazioni di vita degli emarginati. Non è così, ma in fondo la magia di Ceruti sta anche nella capacità di creare costantemente questa illusione.

Il Ciclo di Padernello è annunciato come il clou dell’esposizione. Quali caratteristiche gli valgono questa posizione di importanza?
Roberta D’Adda: Sotto questo nome convenzionale si raccolgono sedici grandi tele con figure di poveri intenti in semplici attività quotidiane: furono scoperte nel 1931 in un castello della Bassa bresciana, a Padernello, e da allora hanno riscosso costante attenzione. Riunite in mostra a Brescia nel 1935 e poi, quasi tutte, a Milano nel 1953 per la rassegna longhiana dei Pittori della Realtà, non si vedevano insieme da allora. A Brescia ne avremo quattordici: un’occasione unica per godere di una visione d’insieme su questo nucleo, frutto forse di un’unica e ancora sconosciuta commissione e che si presenta come una delle imprese più significative del Settecento europeo. Ritroviamo nelle tele di Ceruti non solo la sostanza pittorica della polvere e degli stracci ma, soprattutto, la dignità degli umili.

Quali sono le altre opere da non perdere in mostra?
Roberta D’Adda: Se la Pinacoteca Tosio Martinengo è, per numero di opere, il museo di Giacomo Ceruti, i dipinti di questo artista sono per lo più conservati tutt’oggi in collezioni private: la mostra offrirà l’occasione quindi di vedere – a fianco di prestiti provenienti dall’Italia ma anche, per esempio, da Vienna e Goteborg – capolavori nella maggior parte dei casi inaccessibili al pubblico, posti in dialogo con Ribera, Fra Galgario, Rigaud e Piazzetta. Saranno presentati alcuni inediti sia di Ceruti sia di artisti che ebbero un approccio simile al suo nell’illustrare le scene di vita popolare. Tra questi ultimi, desterà grande curiosità il misterioso pittore noto come Maestro della tela jeans: un artista forse di origine nordica che sul finire del Seicento, in Lombardia, aggiorna la tradizione del naturalismo caravaggesco in modo affatto poetico e personale.

Quale ricaduta positiva si aspetta dopo l’anno di Brescia/Bergamo Capitali della Cultura? Non tanto sul piano degli introiti o del turismo, ma in particolare nell’ambito dei fondi e delle possibilità per la cultura e i musei di Brescia.
Francesca Bazoli: Sono certa che la grande attenzione mediatica e la frequentazione dei pubblici, incentivata dal grande evento, porterà i musei bresciani a essere riconosciuti come luoghi di grande qualità per la conservazione e la valorizzazione e, al contempo, veri e propri cantieri culturali di progettazione e produzione artistica. Da un lato i grandi raggiungimenti museali dell’ultimo triennio, dall’altro una modalità di approccio alla cultura che ibrida costantemente linguaggi antichi e archeologici con il contemporaneo.

Qual è l’aspetto meno conosciuto della cultura e del patrimonio museale di Brescia che verrà messo in luce durante il 2023?
Stefano Karadjov: Certamente la straordinaria vastità del nostro patrimonio museale: dalla grande archeologia romana e longobarda riconosciuta sito Unesco alla straordinaria stagione della cultura lombarda, che trova nella Pinacoteca Tosio Martinengo la sua culla ideale. Infine i due straordinari musei del Castello dedicati uno alla memoria del Risorgimento, l’altro alla produzione bresciana di armi e armature dal 1400 al 1800.

Qual è la mostra o iniziativa che le è più cara e che è impaziente di vedere realizzata?
Possiamo rispondere all’unisono. Il grande palinsesto dedicato a Giacomo Ceruti, con la contaminazione contemporanea di David LaChapelle, corona la strategia di valorizzazione della Pinacoteca quale casa museale più importante per questo grandioso pittore del Settecento.

Autore: Stefano Castelli

Info:
Giacomo Ceruti – Miseria & Nobiltà, fino al 28/05/2023, al MUSEO DI SANTA GIULIA, Via Musei 81/b – Brescia

Fonte: www.artribune.com, 20 mar 2023

AGNONE (Is). L’appello internazionale per salvare i dipinti del Convento di San Francesco.

“Rivolgo unitamente ai colleghi e amici, autorevoli studiosi e personalità della cultura italiana ed europea un accorato appello affinché si possano reperire i fondi necessari per il pronto intervento di restauro del quarto soffitto dell’antico Convento Francescano di Agnone, dipinto nel Settecento da maestranze napoletane. Oggi purtroppo è talmente deteriorato da farne temere la definitiva scomparsa”. Sono queste le parole di Mino Gabriele, professore di Iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini all’Università di Udine, che ha studiato le opere che adornano i soffitti del Convento di San Francesco, attiguo alla Chiesa di San Francesco ad Agnone (in Molise), e che ora chiede vengano salvati dalla distruzione.

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Si tratta in particolare di un soffitto a preoccupare gli studiosi, su cui sono stati realizzati nel Settecento dei preziosi dipinti dalle maestranze napoletane: un grande patrimonio storico-artistico che rischia di andar perso se non ci sarà un accurato restauro per evitarne il deterioramento. “Serve avere la consapevolezza che se non si interviene subito perderemo l’eccezionale monumento, che costituisce, tra l’altro, la testimonianza della nobile tradizione culturale e tecnica di Agnone, in riferimento alla lavorazione dell’oro, del rame e della fusione delle campane, di cui la città è stata ed è maestra”, spiega il professor Gabriele.

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È cosi che il professore ha deciso di inviare un appello alla Soprintendenza del Molise e al sindaco di Agnone Daniele Saia, alla cui iniziativa si sono unite circa cinquanta personalità del mondo della cultura provenienti da Italia, Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Antille e Polonia che hanno condiviso le preoccupazioni di Gabriele chiedendo che vengano reperite delle risorse per far tornare agli antichi splendori il quarto soffitto dell’antico Convento francescano, luogo che peraltro ad oggi è la sede della biblioteca comunale. Forse, con le nuove adesioni in arrivo, sarà possibile reperire i fondi necessari per la tutela di questa testimonianza della storia e della cultura italiana.

Info: https://www.cattedraleisernia.org

Autore: Gloria Vergani

Fonte: www.artribune.com, 19 mar 2023

VENEZIA ospita una grande mostra su Carpaccio.

Dopo 60 anni esatti dalla storica mostra a Palazzo Ducale, Venezia torna a celebrare uno dei suoi artisti rinascimentali più famosi: Vittore Carpaccio (Venezia, 1460/66 ca – Capodistria 1525/26 ca).
La grande retrospettiva – in programma presso l’Appartamento del Doge dal 18 marzo al 18 giugno – nasce da una collaborazione tra i Musei Civici Veneziani e la National Gallery di Washington che ha recentemente ospitato le sue opere, prestate da importanti collezioni museali e private d’Europa e degli Stati Uniti, nonché da chiese veneziane e degli antichi territori della Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia.

Vittore Carpaccio, Caccia in valle

Diversamente dall’esposizione a Washington – la prima dedicata all’artista veneziano in America – questa di Venezia, dal titolo Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni, rimanda agli itinerari cittadini ricchi di capolavori legati ai suoi famosi cicli, serie coordinate di tele (teleri) che raccontano storie sacre, create per le sale di riunione di confraternite religiose e laiche, a Venezia dette scuole. Come quello dell’unico ciclo rimasto nella sede originaria, nella Scuola di Giorgio degli Schiavoni: San Giorgio e il Drago (da segnalare una sua versione in chiave contemporanea, realizzata da Ai Weiwei, ora visibile presso l’Abbazia di San Giorgio Maggiore). Una scelta curatoriale, questa, dettata soprattutto dalla necessità: “tali opere basilari di Carpaccio, alcune rimaste a Venezia, ma altre esulate all’inizio nel secolo XIX in musei italiani e internazionali”, spiega Mariacristina Gribaudi, Presidente di Fondazione MuVe, “sono troppo grandi e fragili per essere condotte in mostra (solo si è potuto riunire integralmente il ciclo smembrato della Scuola degli Albanesi)”.

Vittore Carpaccio, La fuga in Egitto

Carpaccio era anche un ottimo disegnatore: del notevole corpus dei suoi disegni – il più grande di un pittore veneziano del suo tempo – sono esposti numerosi studi su carta, che spaziano da rapidi schizzi compositivi d’insieme ad accurati studi preparatori di teste e pose. Così, la retrospettiva a Palazzo Ducale proponendo ben 70 opere dell’artista, di cui 42 dipinti e 28 disegni, 6 dei quali sono recto/verso, per un totale di 76 lavori – molti dei quali pervenuti grazie a recenti scoperte e nuove attribuzioni – ha il pregio di aggiornare la lettura storico-critica del pittore e la sua evoluzione.
“Questa mostra”, conclude Andrea Bellieni, co-curatore dell’esposizione insieme a Peter Humfrey e a Gretchen Hirschauer – “nasce dall’esigenza di guardare con occhi nuovi a questo grande pittore, soprattutto alla luce di recenti restauri rivelatori e della scoperta di significativi inediti: una preziosa opportunità per la storia dell’arte, ma anche per il pubblico, di fronte alla pittura di irresistibile fascino di un tale ‘antico maestro’”.

Autore: Claudia Giraud

Fonte: www.artribune.com, 4 mar 2023

ROVIGO. Renoir, il classicismo e l’Italia.

Fra i massimi esponenti dell’Impressionismo, movimento che rinnovò radicalmente l’arte del secondo Ottocento, Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 1841 ‒ Cagnes-sur-Mer, 1919) fu però un artista che ebbe comprensione e rispetto per l’arte del passato, alla quale volle guardare quando, giunto nella fase matura della sua carriera, sentì la necessità di un ulteriore passo avanti. E lo compì guardandosi indietro, in particolare all’Italia del Cinquecento, dei vari Carpaccio, Raffaello, Tiziano, Rubens, Tiepolo, che studiò attentamente nel corso di un suo soggiorno fra il 1881 e il 1882.
A Rovigo si può visitare un’interessante mostra di studio che contestualizza il maestro impressionista sia nell’accostamento con quei pittori del passato che lo ispirarono nel corso della carriera, sia nel confronto con i contemporanei, in particolare il gruppo degli “Italiens de Paris” e con gli artisti che lo hanno seguito e che a lui si sono in parte ispirati. Una mostra “su” Renoir e “con” Renoir, per scoprirne i lati di “classicista moderno” e capire l’influenza che anche questa fase matura della sua carriera ha esercitato sull’arte europea, in un momento in cui l’ebbrezza della Belle Époque faceva pensare a un radioso avvenire nel nome della modernità e del progresso. Amare delusioni sarebbero invece seguite.
Da Venezia a Firenze e Palermo, passando per Roma e Napoli, Renoir trascorse quattro mesi studiando quel Rinascimento che gli era meno noto, a partire da Tiepolo e Carpaccio scoperti a Venezia, mentre Roma lo folgorò con i grandiosi affreschi di Raffaello e in Campania ammirò le pitture murali di Pompei; da questi stimoli apprese una nuova idea di sensualità, ben più carnale e insieme spirituale di quella da lui raggiunta immortalando le donne francesi. Ma della Penisola a Renoir piacque anche la luce, così mediterranea, che a suo dire vitalizzava le opere d’arte, donando loro un calore particolare. Il soggiorno in Italia lo convinse quindi a proseguire su quella strada di “riavvicinamento” all’Antico sulla quale aveva mosso i primi passi nel 1876, con Aprés le bain, dove si ritrovano richiami al plasticismo corporeo di Tiziano, ma anche del connazionale Ingres. Percorso che prosegue con La Baigneuse blonde (1882), dove alla morbidezza della forma si aggiunge una chiara e calda luce meridionale, mentre la linea è più netta e la figura ben definita. Renoir si allontanò dall’Impressionismo alla ricerca di una modernità che si ispirasse al passato, e anche Rubens (che a sua volta studiò attentamente il Rinascimento) si prestò a fare da modello, come la mostra documenta accostando la Femme s’essuyant (1912-14) e le Ninfe che incoronano la dea dell’Abbondanza (1622). Nell’accostamento ai maestri del passato e attraverso il nutrito corpus di dipinti e disegni, si può ricostruire il percorso maturo di un artista che, forse già stanco della vivacità della Belle Époque e presentendone in cuor suo la fatuità, cercò nuove motivazioni nella rassicurante (mai soverchiante) grandezza tardo-rinascimentale, che, pur in mezzo allo splendore, cominciava a comunicare un certo crepuscolarismo, a porsi domande e ad avanzare alcuni dubbi. E, forse, anche Renoir volle inconsciamente esprimere i suoi dubbi verso il positivismo imperante.
Quel suo rivalutare la lezione dei maestri rinascimentali fu una prima avvisaglia, in un certo senso, di quel “ritorno all’ordine” che caratterizzò il lavoro di molti artisti italiani del primo Novecento e del primo dopoguerra. Le atmosfere dei suoi paesaggi ritornano infatti nell’opera di Arturo Tosi, Enrico Paulucci e Carlo Carrà, dove alla sintesi della forma si affianca una vibrante pennellata che infonde luminosità alle scene.
Se Renoir preferì lasciare Parigi per la tranquillità della Provenza, per la maggior parte dei suoi colleghi la Ville Lumière era il centro del mondo, meta irrinunciabile per esperienze di vita (artistica ma non solo) e luogo dove indirizzare la propria carriera. Un fascino che subirono anche molti pittori italiani, Boldini, Zandomeneghi e De Nittis su tutti; questi guardarono, in particolare, alla prima fase della carriera di Renoir, quell’Impressionismo spumeggiante che sprizzava vitalità a profusione, quello, ad esempio, del Moulin de la Galette, popolarissimo ritrovo mondano per le classi meno abbienti, ma amatissimo dagli artisti. Una mondanità che si ritrova, ad esempio, in Carrozza a Versailles (1873) di Boldini; e poiché l’Impressionismo aveva nella figura femminile uno dei suoi soggetti preferiti, la mostra permette di apprezzare come la lezione francese sia stata recepita anche dagli italiani; particolarmente vibrante la Donna dalle spalle nude (1895) di Zandomeneghi, caratterizzata da caldi effetti luministici.
La mostra rodigina offre però anche un diverso livello di lettura; oltre a documentare la fase matura di Renoir con i confronti critici proposti, racconta anche l’uomo, attraverso il mondo dei suoi affetti. Particolare tenerezza suscitano infatti i ritratti (su tela e su carta) della moglie e dei figli, che fra l’altro molto ispirarono Armando Spadini. Particolarmente intensa la sanguigna su carta Jean Renoir dans les bras de Gabrielle (1895), con la moglie che tiene in braccio colui che diventerà un apprezzato regista. Il lavoro del padre non gli fu estraneo, in particolare in Una gita in campagna (1936), del quale la mostra propone alcuni spezzoni in versione restaurata: in tali scene si può apprezzare come il figlio abbia ricreate le prospettive e le atmosfere di molti dei dipinti del genitore; una sorta di ideale “passaggio di consegne” sulla strada dell’arte in senso lato, ma anche un modo di continuare a guardare avanti senza dimenticare il passato: un passato che per Jean Renoir proveniva direttamente dal padre.

Autore: Niccolò Lucarelli

Info:
Pierre-Auguste Renoir – L’alba di un nuovo classicismo, fino al 25/06/2023
PINACOTECA DELL’ACCADEMIA DEI CONCORDI – PALAZZO ROVERELLA
Via Giuseppe Laurenti 8/10 – Rovigo

Fonte: www.artribune.com, 3 mar 2023

TORINO. Un viaggio nella Spagna islamica al MAO.

L’esposizione “Lustro e lusso dalla Spagna islamica“, allestita nella Galleria dei Paesi islamici dell’Asia, apre la programmazione 2023 del MAO Museo d’Arte Orientale di Torino.

Capitello-Spagna-Cordoba-periodo-omayyade-seconda-meta-del-X-secolo

“Con questa mostra prende avvio una progettualità di ricerca composita, volta ad analizzare la tensione tra Asia e continente europeo nelle sue traiettorie artistiche e culturali”, spiega il direttore Davide Quadrio. Si tratta del primo risultato di un più ampio progetto di collaborazione con la Fondazione Bruschettini per l’Arte Islamica e Asiatica di Genova e altre collezioni pubbliche e private che si svilupperà ulteriormente per dar vita ad una grande mostra, prevista per l’ottobre di quest’anno. Il tema sarà un itinerario ideale dalla Cina al Mediterraneo, partendo dal periodo Tang (VII secolo d. C.) per arrivare ai giorni nostri. L’obiettivo è quello di creare delle relazioni più strette fra i musei dell’area mediterranea per facilitare la circolazione di opere e progetti.

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La mostra torinese, curata da Filiz Çakır Phillip, ricercatrice specialista in Arte islamica, già curatrice dell’Aga Khan Museum a Toronto e membro dell’Association of Art Museum Curators & AAMC Foundation di New York, porta non a caso il sottotitolo frontiere liquide e mondi in connessione.
“Il Mediterraneo è il luogo dove culture diverse hanno avuto modo di integrarsi” ‒ spiega la curatrice ‒ “anche attraverso complessi scambi commerciali che dall’Estremo Oriente, tramite l’Asia Centrale, raggiungevano i Paesi europei. Gli oggetti orientali hanno da sempre incontrato l’apprezzamento del pubblico occidentale. Qui abbiamo voluto fare una selezione molto precisa, una trentina di oggetti, scelti secondo una precisa linea curatoriale e concentrandoci in particolare su tappeti, tessuti e ceramiche”.

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Le opere provengono, oltre che dalla Fondazione Bruschettini, dall’Istituto Valencia de Don Juan di Madrid, da Palazzo Madama ‒ Museo Civico d’Arte antica di Torino e dalla Galleria Moshe Tabibnia di Milano ed esemplificano la permeabilità culturale e artigiana fra il mondo arabo e quello spagnolo-europeo in un periodo storico preciso, tra il X e il XVI secolo. Elisabetta Raffo, direttrice della Fondazione Bruschettini, ricorda che “l’idea di lavorare sul tema delle frontiere liquide è nata a maggio 2022, in occasione di un incontro per ricordare, a un anno dalla morte, Alessandro Bruschettini e il percorso di studio e collezionismo finalizzato ad approfondire il rapporto tra Oriente e Occidente e a trasmettere al pubblico la conoscenza di un mondo altro da noi”.

Piatto-Spagna-XV-secolo.-Palazzo-Madama-Museo-Civico-dArte-Antica-Torino-2

La mostra si apre con un pezzo che esula dal successivo percorso dell’esposizione incentrata su tessuti e ceramiche. Si tratta di un capitello in marmo del periodo omayyade (seconda metà del X secolo) originario dell’area di Cordoba, capitale dell’al-Andalus, la Spagna islamica. Le decorazioni mostrano la raffinata maestria raggiunta nell’arte dell’intaglio, dove le reminiscenze della tarda antichità si fondono con gli stili decorativi astratti sviluppatisi durante i primi periodi della presenza musulmana in Spagna. Uno dei tanti esempi di quel sincretismo culturale tra civiltà araba e occidentale che trova nell’area mediterranea, in particolare spagnola (ma non solo), una sua sintesi ideale.
L’esposizione è accompagnata dalla pubblicazione di un libretto dedicato ‒ distribuito gratuitamente ‒ con contributi di Filiz Çakır Phillip, Cristina Maritano, conservatrice di Palazzo Madama (sulla ceramica a lustro), e di Alberto Boralevi (sui tappeti spagnoli).
Anche questo progetto espositivo sarà arricchito nei mesi di apertura della mostra da incontri di studio, conferenze e momenti di intrattenimento (performance e musica).

Autore: Dario Bragaglia

Fonte: www.artribune.com, 20 feb 2023

Info:
Lustro e lusso dalla Spagna islamica, fino al 28/05/2023
al MAO – MUSEO D’ARTE ORIENTALE – Via San Domenico 9/11 – Torino