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VENEZIA. Una super donazione di opere d’arte. La collezione di Gemma Testa.

Grande regalo di fine anno per la città di Venezia: opere d’arte provenienti da una delle più importanti collezioni di contemporaneo in Italia – quella di Gemma De Angelis Testa, moglie del mitico Armando Testa – per un controvalore certificato di 17 milioni e 300mila euro. Venezia è abituata, specie negli ultimi anni, ad acquisire importanti donazioni, ma questa volta l’entità è tale che si parla della cessione più ingente da sessant’anni a questa parte, dai tempi del lascito Usigli del 1961.
Le opere, secondo quanto annunciato da un gongolante sindaco Brugnaro, finiranno esposte a Ca’ Pesaro, uno dei Musei Civici della città, ente cui è destinata la donazione. Un comodato d’uso che verrà salutato in primavera 2023 con una mostra. Tra le opere anche 5 quadri di Marlene Dumas, artista protagonista in Laguna nel corso di tutto l’ultimo anno grazie alla grande mostra a Palazzo Grassi finita anche come ‘miglior mostra dell’anno’ per il nostro best of del 2022. Altri nomi? Di altrettanto rilievo. La raccolta annovera capolavori di Robert Rauschenberg e Cy Twombly affiancati ai maestri dell’Arte povera Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Pier Paolo Calzolari, Gilberto Zorio. Il viaggio nell’arte del secondo ‘900 si articola con opere fondamentali della produzione di Anselm Kiefer e con lavori iconici di Gino De Dominicis, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mario Schifano e ancora sculture di Tony Cragg ed Ettore Spalletti.
Artiste donne? Ecco le visioni di Marina Abramovic, Vanessa Beecroft, Candida Hofer, Mariko Mori, Shirin Neshat, tra le altre. Le scelte e i percorsi del gusto della collezionista partono dalla metà del secolo scorso e sviluppano un dialogo continuo con la produzione di Armando Testa. Un prezioso nucleo della donazione è costituito da 17 capolavori del geniale creativo, con opere celeberrime dagli anni Cinquanta in poi, che ripercorrono l’universo immaginifico di Testa. La collezione mette in relazione tra loro autori diversi dell’arte internazionale, con le fotografie di Thomas Ruff e Thomas Struth, i lavori di John Currin, Thomas Demand, Anish Kapoor e Marlene Dumas, le tele di David Salle e Julian Schnabel in continuo rimando alle creazioni di Tony Oursler, Gabriel Orozco, Kcho. Il gusto collezionistico si esprime anche nelle importanti presenze di Sabrina Mezzaqui, Paola Pivi, Marinella Senatore mentre la dimensione internazionale della raccolta si articola nel tempo e nello spazio con lavori di Kendell Geers, Yang Fudong, Subodh Gupta, Chantal Joffe, Brad Kahlhamer, Lari Pittman. Le opere abbracciano tecniche, culture e geografie diverse, tutte centrali nella contemporaneità, da William Kentridge a Chris Ofili, da Adrian Paci a Do-Ho Suh, da Chen Zhen a Francesco Vezzoli, Bill Viola e Ai Weiwei, da Piotr Uklanski a Trisha Baga.
Collezionista attenta da decenni, Gemma Testa ha raccontato di dovere molto a Venezia, città dove conobbe il marito Armando Testa proprio in occasione di una Biennale, quella del 1970. E ha ringraziato Gabriella Belli e Gianfranco Maraniello per aver reso più fluida questa donazione. La sua collezione si è poi particolarmente arricchita negli anni Ottanta, soprattutto grazie a molti viaggi all’estero a partire dalla prima opera acquistata, un Cy Twombly.
A partire dagli anni Novanta anche un grande impegno da ‘attivista’ di questo settore, con la presidenza tra le altre cose dell’Associazione ACACIA. “Invitiamo tutti i collezionisti a non tenere le loro opere dentro ai caveau ma ad esporli, possibilmente nella nostra città” ha esortato il sindaco di Venezia Brugnaro. Impossibile dargli torto.

Fonte: www.artribune.com, 30 dic 22

LONDRA. Pensavano fosse una semplice statua da giardino. E’ invece una scultura di Canova.

Antonio Canova (Possagno 1757-1822 Venezia)
Maddalena Giacente (Maddalena distesa)
marmo, 1819-1822 – 75 x 176 x 84,5 cm (29½ x 69¼ x 33¼ in.)

La casa d’aste Christie’s ha annunciato la scoperta di una scultura di Antonio Canova – realizzata tra il 1819 e il 1822, poco prima della morte dall’artista italiano – che rappresenta Maddalena giacente, capolavoro perduto del grande scultore. L’opera era stata scolpita per il Primo Ministro inglese. Nel passaggio delle generazioni i proprietari si erano avvicendati e l’opera era stata considerata una semplice statua da giardino, una sorta di pezzo di arredamento per esterni verdi. Per gli storici dell’arte – che avevano a disposizione il modello in gesso conservato nel Museo di Possagno – la statua era perduta. Vent’anni fa, questa scultura molto sporca e forse impiastrata da una patina bituminosa, stata venduta per 5.200 sterline (poco più di 6mila euro) a un’asta di statue da giardino nel Sussex, in Inghilterra.
L’opera è stata indagata recentemente. La paternità documentata. La scultura sarà messa all’asta in luglio, da Christie’s con una stima compresa tra 5 milioni di sterline (5 milioni e 938mila euro) e 8 milioni di sterline (9milioni 500mila euro). Non va dimenticato che il 2022 è l’anno di commemorazione del bicentenario della morte di Canova.
La scultura – che fu commissionata da Lord Liverpool (1812- 1827) – sarà in mostra per la prima volta presso la sede di Christie’s a Londra il 19 e 20 marzo; poi a New York, dall’8 al 13 aprile. Successivamente sarà trasferita a Hong Kong, dal 27 maggio al primo giugno, prima di tornare a Londra per tre settimane e successivamente collocata in sarà pre-vendita dal 2 al 7 luglio.
Mario Guderzo, studioso di spicco del Canova, già Direttore del Museo Gypsotheca Antonio Canova e del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa ha commentato: “È un miracolo che l’eccezionale capolavoro, perduto da tempo, di Antonio Canova, la “Maddalena giacente”, sia stato ritrovato, a 200 anni dal suo completamento. Quest’opera è ricercata dagli studiosi da decenni, quindi la scoperta è di importanza fondamentale per la storia del collezionismo e la storia dell’arte”.
Donald Johnston, capo della Sezione scultura internazionale di Christie’s, ha detto che “la riscoperta del capolavoro perduto di Canova è immensamente emozionante ed è un momento clou dei miei oltre 30 anni di carriera sul campo. Questa scultura rappresenta una commissione ampiamente documentata. La Maddalena, fu poi posta all’asta da Christie’s nel 1852. In seguito cadde nell’oblio e andò perduta agli studiosi prima di essere recentemente riscoperta”.
La Maddalena giacente occupa un posto importante nel canone della scultura occidentale come uno degli ultimi due marmi – insieme all’Endimione – eseguiti da Canova. La Maddalena è il culmine dei suoi studi sulla forma umana e nasce da un confronto con Gianlorenzo Bernini (1598-1680). Una rimeditazione – quasi in chiave già romantica – della scultura berniniana della Beata Lodovica Albertoni (S. Francesco in Ripa, Roma).
La statua venne commissionata – come dicevamo – nel 1819 dal primo Ministro, Lord Liverpool. Canova realizzò un primo modello in gesso per la Maddalena giacente, che ora è conservato al Museo Gipsoteca di Possagno, datato ‘1819 nel mese di settembre’. Canova espose il modello nel suo studio nell’ottobre dello stesso anno e, il mese successivo, scrisse in una lettera all’amico Quatremère de Quincy: “Ho esposto un altro modello di una seconda Maddalena distesa a terra, e quasi svenuta per l’eccessivo dolore della sua penitenza, un argomento che mi piace molto, e che mi ha dato numerose indulgenze e lodi molto lusinghiere”. Uno di questi ammiratori fu lo scrittore, poeta e paroliere irlandese dell’epoca, Thomas Moore, che così scrisse: «Mi giaceva a vedere la sua ultima Maddalena, che è divina: coricata in tutto l’abbandono del dolore; e l’espressione del suo viso, e la bellezza della sua figura . . . sono la perfezione » (novembre 1819, in Memorie, diario e corrispondenza , pubblicato nel 1853).
Nel 1828, appena sei anni dopo il completamento della scultura, il committente, Lord Liverpool, morì. Titolo e proprietà di Lord passarono a suo fratello, Charles. Nel 1852, in seguito anche alla morte di quest’ultimo, la scultura fu posta all’asta alla Fife House, Whitehall, a Londra. “La statua celebrata della Maddalena del Canova” – è scritto nel catalogo – è “una delle opere più belle e rifinite di Canova”. Era nella collezione di Lord Ward (poi conte di Dudley) – uno dei più eminenti collezionisti del suo tempo – nel 1856 quando fu esposta in mostra all’Egyptian Hall, Piccadilly, Londra, così come nella mostra d’ arte di Manchester del 1857, inaugurata dal Principe Alberto. E in occasione di questa mostra essa fu fotografata per la prima volta.
Dopo la morte di Lord Ward, la sua proprietà e la sua collezione passarono a suo figlio che nel 1920 vendette la grande casa, Witley Court, e l’intero contenuto a Sir Herbert Smith, un produttore di tappeti. Fu a questo punto che l’attribuzione al Canova sembra essere andata perduta. A seguito di un disastroso incendio che distrusse gran parte della corte, la scultura passò di nuovo di mano. Nel 1938 andò all’asta ma non fu attribuita a Canova. Venne catalogata come “figura classica”.
È stato ora accertato che il marmo – ormai privo di qualsiasi attribuzione – fu, in quella occasione, acquistato da Violet van der Elst, un’eccentrica imprenditrice e attivista, famosa ai suoi tempi, ma ora in gran parte dimenticata – che ha costruito e perso una fortuna. Le sue numerose case furono vendute e la sua vasta collezione di arte e oggetti d’antiquariato fu dispersa, in gran parte per sostenere il suo attivismo umanitario. La Maddalena era nel giardino della casa di Violet van der Elst, in Addison Road, Kensington, dove rimase anche dopo la vendita della proprietà, nel 1959, a un mercante d’arte locale. Si dice che sia stata poi venduta di nuovo con la casa, alla fine degli anni ’60. Nel 2002 la statua venne acquistata dall’attuale proprietario in una vendita di statue da giardino e oggetti architettonici, per una cifra equivalente a 6mila euro. Solo di recente è stata ristabilita la paternità della splendida opera.

Fonte: www.stilearte.it, 18 mar 2022

ROMA. Riapre al pubblico l’Arco di Giano al Velabro.

Dopo 28 lunghi anni viene restituito alla pubblica fruizione uno dei monumenti più suggestivi del passato imperiale: l’Arco di Giano al Velabro, nel cuore della Capitale, a un passo dal Campidoglio e dai Fori Imperiali. Eretto per volontà dei figli di Costantino per commemorarlo dopo la morte nel IV secolo, l’arco presenta una pianta quadrangolare ed è inoltre “bifronte”, caratteristica, questa, che nel corso del Cinquecento ha portato gli storici a intitolare il monumento al dio romano con la stessa caratteristica, Giano. Ianus, inoltre, significa “passaggio coperto”. Dopo l’attentato del 28 luglio 1993 – l’esplosione dell’ordigno piazzato da Cosa Nostra che distrusse la chiesa di San Giorgio e fece 22 feriti – il monumento è rimasto chiuso.
giano 3Dopo il restauro, è stato poi circondato da una cancellata. In questi anni l’Arco è stato fruibile solo in rare occasioni, ma adesso sarà possibile visitarlo ogni sabato, a partire dal 13 novembre: tutto questo è reso possibile dalla comunione di intenti tra Fondazione Alda Fendi – Esperimenti e la Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma guidata da Daniela Porro.
La speciale riapertura viene celebrata con una performance, NU-SHU – Le parole perdute delle donne, un’operazione ibrida e teatrale, della durata di nove minuti, che prenderà vita venerdì 5 novembre alle ore 21.15 e alle 21.45. Il NU-SHU è “un idioma segreto sviluppato in Cina tanto tempo fa dalle donne del popolo Yao, nella provincia dello Hunan, e da loro gelosamente custodito e tramandato per generazioni, con lo scopo di non farsi comprendere dagli uomini”.
giano 2L’artefice dell’iniziativa artistica contro il femminicidio è Raffaele Curi, l’intento è denunciare ogni forma di violenza fisica e psicologica alludendo alla forza che ogni donna che ha subito soprusi e prevaricazioni è costretta a trovare dentro di sé per sopravvivere all’agonia della violenza subita.
Settanta kimono nuziali in seta bianca indossati da altrettante donne sono frutto di una ricerca di Alda Fendi in Cina; le performer si tolgono la maschera, riaffermando la propria identità, sulle note dell’aria Je veux vivre dans le rêve tratta da Romeo et Juliette di Charles Gounod. Alla fine, una luna piena sorge dal profilo interno dell’Arco, accendendolo di bagliori.
giano 4Già nel 2018 Alda Fendi si era mossa per finanziare l’illuminazione, firmata da Vittorio Storaro, dell’Arco di Giano. La sua struttura è un unicum, ha una pianta quadrangolare e si erge grazie a quattro possenti pilastri che sorreggono una volta a crociera. I pilastri sono decorati da due file di tre nicchie semicircolari con semicupola a conchiglia, al cui interno erano ospitate delle statue, per un totale di 48. Nelle quattro chiavi di volta, sono visibili le rappresentazioni di Roma e Giunone (in posizione assisa), di Minerva, mentre la quarta figura potrebbe rappresentare Cerere.

Autore: Giorgia Basili

Fonte: www.artribune.com, 4 nov 2021

VENEZIA. Martini, Morandi, de Pisis. Al Palazzo Cini.

Entrando nel piano nobile della Galleria di Palazzo Cini si ha la sensazione di varcare la soglia di una casa, più che di uno spazio espositivo. Una dimora in cui un raffinato ed estroso collezionista custodisce gelosamente opere e oggetti straordinari.
La scala ripida e stretta, gli spazi raccolti, la luce soffusa, gli arredi contribuiscono a rafforzare l’impressione di trovarsi in un luogo privato, intimo. Per certi aspetti in netto contrasto con l’idea di museo alla quale siamo oggi abituati, in cui le opere sono allestite alla giusta distanza, nel giusto ordine, sotto la giusta luce, per valorizzarne ogni dettaglio, scandagliarne ogni segreto.
Cini 2In queste sale invece irrompe la vita, caotica e irriducibile: si posa sulle opere preservandone il mistero, le tracce evidenti ma insondabili delle esistenze che hanno incrociato, toccato, posseduto quegli oggetti. È in un ambiente così connotato che si colloca la selezione di opere provenienti dal lascito di Franca Fenga Malabotta alla Fondazione Cini, per la prima volta esposte al pubblico. Sette capolavori che non sono solo oggetti di studio, ma testimoni un po’ malinconici di un certo modo di fare collezionismo che ha accompagnato per quasi un secolo la vita del notaio, poeta e critico Manlio Malabotta prima e della moglie Franca poi.
All’indomani della morte del marito, Franca Fenga Malabotta si ritrova improvvisamente a essere custode e ambasciatrice di una collezione vastissima, che annovera un corpus straordinario di opere di Filippo de Pisis, numerosissimi libri d’artista, incisioni sciolte e volumi di pregio, nonché un significativo nucleo di lavori di Arturo Martini.
Cini 3Nel catalogo Manlio Malabotta e le Arti, pubblicato in occasione dell’omonima mostra inaugurata a Trieste nel 2013, Franca Malabotta scrive: “Rimasta sola, iniziai a guardare le esposizioni con altri occhi. […] qualcosa era cambiato, gli amati de Pisis erano diventati soltanto miei, ero io che avrei dovuto custodirli, farli conoscere, accompagnarli alle mostre […], proteggerli come meravigliose creature da cui non avrei potuto separarmi con facilità”.
La valorizzazione della collezione, soprattutto attraverso l’avvio di collaborazioni con istituti ed enti di ricerca, diventa quasi una missione. Per Franca Malabotta le opere devono viaggiare ed essere esposte, nella consapevolezza che il vero collezionismo non equivale a rinchiudere gli oggetti in un castello dorato. Ed è così che nel 1996 viene istituzionalizzata la donazione dell’intero corpus di de Pisis alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, città natale dell’artista. Del 2015 invece è la decisione di lasciare al Museo Revoltella di Trieste il nucleo di lavori di interesse giuliano.
Nel medesimo anno Franca Malabotta decide di conferire alla Fondazione Cini la collezione di libri d’artista e la raccolta d’arte grafica, al fine di promuoverne lo studio e la catalogazione.
Lo straordinario corpus di opere donate comprende volumi illustrati, fra gli altri, da Carrà, Rosai, Guttuso e de Chirico, nonché da esponenti dell’Espressionismo tedesco come Grosz e Kokoschka; incisioni di Chagall, Marini e Vedova, a cui si aggiunge il nucleo di lavori di Arturo Martini.
Cini 4Una collezione attraverso cui è possibile ricostruire la mappa delle frequentazioni – geografiche e intellettuali – che hanno accompagnato Manlio Malabotta e la sua pratica di collezionista, dal Friuli Venezia Giulia al Veneto, da Giovanni Comisso a Umberto Saba e Giovanni Scheiwiller.
Nella casa museo della Galleria, fra la collezione permanente di dipinti toscani dal XIII al XVI secolo, sono incastonati con grazia, perfettamente amalgamati, sette lavori provenienti dal lascito. Morandi, l’immancabile de Pisis, Martini: autori particolarmente rappresentativi dell’interesse di Malabotta, anche in qualità di critico, nei confronti dell’arte figurativa italiana a cavallo fra le due guerre.
Tre artisti accomunati dall’impossibilità di essere ricondotti a una corrente specifica o a una tendenza di mercato dell’epoca. Tutti e tre protagonisti di una ricerca personalissima, dagli esiti talvolta inaspettati: l’intensità dei chiaroscuri nelle acqueforti di Morandi in contrasto con l’evanescenza dell’acquerello dipinto l’anno prima della morte; il tratto morbido e trepidante di de Pisis nelle prove di stampa per l’edizione de I Carmi di Catullo, quasi “a servizio” delle atmosfere evocate dal poeta latino; la Morte di Ofelia di Martini, plasmata a viva forza nella terracotta, così diversa dai lavori appartenenti alla medesima sequenza scultorea.
Le opere d’arte come epifenomeni progressivi della vita: degli artisti che le hanno create e dei collezionisti che le hanno amorevolmente conservate e consegnate a noi.

Info:
Martini | Morandi | De Pisis – Il Lascito Franca Fenga Malabotta, fino al 31/10/2021
Autori: Giorgio Morandi, Filippo De Pisis, Arturo Martini
Spazio espositivo: GALLERIA DI PALAZZO CINI A SAN VIO – Dorsoduro 864 – Venezia – Veneto

Autore: Irene Bagnara

Fonte: www.artribune.com, 17 ott 2021

VIENNA. Tutto Gustav Klimt da oggi fruibile online. Il nuovo progetto di Google Arts & Culture.

La più grande e completa retrospettiva su uno dei degli artisti più amati di tutti i tempi, Gustav Klimt, è adesso fruibile online, grazie al nuovo progetto firmato da Google Arts & Culture, piattaforma di Google dedicata all’approfondimento delle arti.
Belvedere-_Jurisprudence_-in-colour_on-Google-Arts-_-Culture-282x420Klimt vs. Klimt è il titolo della mostra virtuale che mette insieme oltre 120 capolavori più noti dell’artista “provenienti” da oltre 30 istituzioni culturali di tutto il mondo (tra cui il Belvedere, l’Albertina, la Klimt Foundation, la Neue Galerie New York e il Metropolitan Museum of Arts), e non solo: attraverso il Machine Learning – un sottoinsieme dell’Intelligenza Artificiale – e un’applicazione unica di realtà aumentata e 3D, sono state riportate in vita (seppur virtualmente) tre opere andate perdute di Klimt di cui erano rimaste soltanto fotografie in bianco e nero scattate ai primi del Novecento, i Quadri della Facoltà, realizzati dall’artista su commissione dell’Università di Vienna.
Tra le opere esposte nella galleria virtuale di Google Arts & Culture sono anche il celeberrimo Bacio (catturato ad altissima risoluzione con l’Art Camera di Google) e il Ritratto di Adele Bloch Bauer I, anche se i riflettori sono naturalmente puntati su Filosofia, Medicina e Giurisprudenza, i tre dei quattro pannelli realizzati da Klimt per il ciclo dei Quadri della Facoltà, allegorie realizzate tra il 1899 e il 1907 per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna e rifiutate da quest’ultima perché ritenute scandalose.
Neue-Galerie-New-York-_Adele-Bloch-Bauer-I_-1903_1907_on-Google-Arts-_-Culture-417x420Ciò che rimane di queste opere andate perdute nel 1945 durante un incendio scoppiato al castello di Immendorf in Austria, sono solo alcune immagini fotografiche in bianco e nero. La sfida di Google Arts & Culture è stata quindi di riscostruire digitalmente, attraverso il Machine Learning e la consulenza del dott. Franz Smola, tra i maggiori esperti di Klimt al mondo, i pannelli a colori.
“I tre ‘Quadri di Facoltà’ di Klimt sono tra le opere più grandi che Klimt abbia mai creato e nel campo della pittura simbolista rappresentano i capolavori dell’artista”, spiega Franz Smola. “Per l’effetto travolgente di questi dipinti i colori sono stati essenziali e hanno fatto scalpore tra i contemporanei di Klimt. Perciò la ricostruzione dei colori è sinonimo di riconoscimento del vero valore e significato di queste eccezionali opere d’arte. Sono colpito dalle fantastiche immagini scattate con la Art Camera di Google”, continua Smola, “ti permettono di esplorare veramente un’opera d’arte, di saltare nella sua applicazione di texture e colori e di scoprire ogni dettaglio nel modo più semplice possibile. Mi piace anche come la tecnologia permetta di dare vita a idee che sono sempre state solo ipotetiche – penso alla Pocket Gallery che abbiamo creato, che contiene una selezione di quadri di Klimt tra cui alcuni che sono andati persi, o la creazione dei Faculty Paintings ricolorati. E il progetto stesso ha aperto molte nuove prospettive e processi creativi”.

Info:
Per visitare “Klimt vs Klimt – The Man of Contradictions” vai su g.co/klimtvsklimt o scarica l’app gratuita di Google Arts & Culture su iOS o Android

Autore: Desirèe Maida

Fonte: www.artribune.com, 7 ott 2021