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Michele Santulli, Cane e padrone.

Sembra incredibile eppure l’immortale creatore dei ‘Buddenbrooks’ e della ‘Montagna Incantata’ avversario acerrimo e pubblico del Nazismo incipiente e di Hitler, nella sua maturità sentì anche il piacere di trasmettere ai propri lettori le sue esperienze e sensazioni vissute accanto ad un bastardello, come vengono di solito definiti questi cani popolari dalle umili origini.
Thomas Mann (1875-1955 ), è di lui che stiamo parlando, in tutta la sua esistenza ebbe molti cani e Bauschan cosi si chiamava il bastardello col pelo raso marrone e con striature di nero e un ciuffo sulla testa e zampe storte e piccola coda, fu quello che maggiormente colpì ed ispirò lo scrittore tanto che ad un certo momento sentì quasi la esigenza di immortalarlo in un racconto di sentimenti e vicende canine che chiamò ‘idillio’ nel 1918 intitolato appunto ‘Cane e padrone’ in tedesco ‘Padrone e cane’!
Dei tanti cani avuti, Bauschan il bastardello il solo cha ha avuto tale privilegio letterario. Le passeggiate mattutine nel parco dove si trovava la casa in un parco alla periferia di Monaco ed i contatti e le conversazioni con Bauschan. Tutto intorno natura a vista d’occhio ben tenuta e alberi di varie specie e il sentiero che normalmente percorrevano sfociava sulla riva di un fiume, il fiume Isar, che scorreva lungo il bosco. In giro la selvaggina tipica di lepri, fagiani, caprioli e naturalmente quantità di topi, di talpe e di scoiattoli. E per Bauschan era un continuo rincorrere soprattutto appresso alle lepri, tra l’altro un boccone prelibato; ma le lepri come si sa, sono quasi inafferrabili, talmente abituate ad essere rincorse e cacciate da tutti, quadrupedi e bipedi e perciò il più delle volte gli inseguimenti erano a vuoto e quando accadeva talvolta che la presa era possibile e ravvicinata, la lepre ricorreva al segreto tipico che la salvava e cioè faceva un guizzo in verticale che le consentiva un cambiamento fulmineo di rotta, mentre il povero Bauschan continuava la corsa ancora per qualche metro con la conseguenza di perdere di vista l’obbiettivo! E lo scrittore si divertiva allo spettacolo e trovava parole di consolazione per Bauschan che gli si accostava riconoscente e cercava di saltargli addosso per baciarlo, con le zampe sporche di terra e la bocca ancora spalancata…. E poi i fagiani, riusciva a bloccarne qualcuno ma che subito rimetteva in libertà perché disturbato dagli starnazzamenti e dalle piume. Un altro animale preferito per le sue rincorse erano le numerose oche che bivaccavano sulle rive del grande fiume ma anche le oche erano inavvicinabili perché alla sua apparizione volavano in acqua e restavano a guardarlo e magari a deriderlo. E Thomas Mann godeva a queste imprese sempre le medesime del suo amato quadrupede. Le prede ambite erano i topi e le talpe e non riuscendo ad agguantarle mentre scorazzavano in giro, iniziava a scavare la terra dove si erano rifugiate e anche in questo caso dopo aver lungamente scavato il terreno e imbrattatosi ben bene, il risultato era nullo in quanto la eventuale bestiola si era costruita una tana così sicura da essere inavvicinabile. Ma talvolta riusciva a bloccare un topo o una talpa: azzannare e divorare era un tutt’uno! Pur con sentimenti di dolore per la vittima e anche di un certo disgusto allo spettacolo, Thomas Mann accettava, disapprovando, l’assassinio commesso dal caro Bauschan.
E poi la descrizione magistrale e fedele della natura, degli alberi e degli arbusti, dei fiori e poi dei vialetti, del lungofiume, del traghettatore. E poi Bauschan che aveva la comoda casetta nel giardino, che andava a bussare con la sua zampa sulla vetrata dello studio dello scrittore che quasi sempre lo faceva entrare, portandosi indietro terra e foglie.
Quale rapporto tra cane e padrone! Si parlavano, si accarezzavano, camminavano l’uno affianco all’altro; quando lo scrittore andava in città e restava assente, Bauschan in attesa paziente del ritorno e quante feste.
Nemmeno il più esperto chirurgo sarebbe stato in grado di descrivere un corpo vivente come Thomas Mann: ogni fibra, ogni singola componente del corpo di Bauschan veniva perfettamente e amorevolmente individuata e descritta, perfino le unghie delle zampe, la coda, la barbetta, le labbra, i denti e il ciuffo, la posizione delle zampe nelle varie andature, le emissioni vocali; e incredibile, gli occhi! che cosa vi leggeva in certi momenti, con quelle espressioni! Gli occhi dei cani, chi sa e vuole osservarli, sono una fonte inimmaginabile di sensazioni e di sentimenti: nessun essere vivente dispone di questa prerogativa unica, di quegli sguardi, quale e quanta espressività. E quante conversazioni e dialoghi tra i due: ad ogni frase dello scrittore corrispondeva una espressione o un suono o un movimento differente di Bauschan.
E quanta cura ed attenzione. A questo proposito viene in mente il miserabile bipede che quasi sempre impunito, ha il coraggio anzi la ferocia di abbandonare il proprio cane, magari legato sull’autostrada, perché per esempio sta andando in vacanza. Ed episodi analoghi. Rarissimamente invece si sente parlare di una visita al canile pubblico o del controllo al medesimo.

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

 

Michele Santulli. Le due Agostine, di Corot.

E’ una pagina dell’artista J.B.C. Corot (1796-1875) scarsamente frequentata pur essendo al contrario estremamente significativa; in verità nel canone delle sue opere si registrano non due ma una sola vera Agostina: in effetti quella conosciuta e da tutti ricordata e illustrata, è la Agostina celeberrima esposta con questo nome alla National Gallery di Washington che illustra una modella con addosso gli abiti ciociari di cui l’artista disponeva nello studio e che combinando spesso in maniera poetica, cioè folkloricamente critica, faceva indossare alle modelle in posa sulla pedana, come nel presente caso: è vero che lo sfondo del dipinto fa pensare ad uno dei paesi visitati dall’artista quando in quei luoghi circa quaranta anni prima, forse Anticoli Corrado o Olevano e il costume ciociaro indossato, anche esso suggestivo e sentimentale, nei fatti non esiste e la ciociara con quelle belle colorate e variopinte maniche così care all’artista e con la collana di perle o con quel copricapo in testa, nemmeno esiste! In verità, si dirà, l’artista trascende e personalizza, è vero, anche se la verità folklorica come pure quella sociale, non si cancellano.

COROT, 55×46 cm coll.priv

Inizialmente detta opera, quando esposta in una mostra del 1875, era connotata come L’Italienne, negli anni successivi divenuta Agostina, senza fornirne le motivazioni: si tratta perciò in realtà di uno dei soliti battesimi fondati sulle nuvole, stando ai fatti storici qui documentati. Questa è dunque l’Agostina di Corot nota a tutti e cultori e studiosi, ma non l’Agostina vera!
Preliminarmente va ricordato che un’Agostina modella era effettivamente già presente a Parigi sul mercato delle modelle: la conosciamo dalle opere per le quali posò per il giovane ventenne Renoir negli anni ’60 del 1800. In effetti Agostina era già un nome che iniziava a circolare negli ambienti artistici e ancora di più negli anni successivi allorché attirò sicuramente anche l’attenzione del battista del dipinto famoso di cui sopra. E la modella già conosciuta che stiamo descrivendo si chiama Agostina Segatori, nata nel 1841 per caso in Ancona, originaria di Subiaco tra i Monti Ruffi in Ciociaria, a circa 72 Km a Sud di Roma. La sua fisionomia ci è nota dalle opere del pittore E. Dantan di cui fu compagna per circa dodici anni, dai due ritratti di Van Gogh che frequentò per parecchi mesi, dal solo dipinto di ciociara di Manet intitolato L’Italienne, dal ritratto eseguito da Hagborg secondo le ricerche di una studiosa canadese e da numerose opere di Corot stesso: da ciò e da altro, ved. MODELLE E MODELLI CIOCIARI A ROMA, PARIGI E LONDRA 1800-1900, viene confermato senza possibilità di dubbi che la Agostina di Washington del 1866 non è Agostina Segatori! Forse un caso di omonimia, più probabile, come suggerito, un arbitrario battesimo. Già uno studioso del Museo di Washington ha espresso qualche perplessità su tale identificazione in occasione di una recente mostra appunto sulle modelle di Corot.

Le Repos,57,8×101,6 NGA in Washington

La Storia impone che Corot conoscesse bene Agostina, quella vera. Probabilmente in uno dei cosiddetti mercati delle modelle, forse quello della Via Mouffetard nel Quartiere Latino, dove nelle viuzze vivevano numerose comunità soprattutto di ciociari in gran parte originari della Valcomino, tutto lascia immaginare che un bel giorno l’artista vi abbia fatto una passeggiata e qui individuato Agostina, giovane, fresca, bella, nel suo magnifico abbigliamento colorato. Si stabiliscono le condizioni e si prendono gli accordi e il giorno dopo iniziano le sedute allo studio al Faubourg de la Poissonière, non distante. La modella è di fronte, forse col tamburello in mano: e l’artista guarda e osserva e alla fine decide e si mette al lavoro: la natura è la sua guida!
Questo sarà veramente il primo ritratto di donna che non è parte della cerchia familiare o amicale. E’ un momento decisivo per l’artista: a parte il soggetto femminile, Corot vuole dimostrare e mostrare che la sua abilità pittorica celebrata nel suo paesaggismo ormai famoso, non rifugge dalla figura umana, come qualche malevolenza propalava. E inizia il lavoro: la ritrae così come si è presentata allo studio e nasce in non pochi incontri e sedute la ciociara col mandolino e il tamburello!
Corot conformemente ai suoi principi, opera nel rispetto della natura e quindi davanti a noi appare il ritratto fedele e distintivo della modella Agostina, non disturbato da orpelli e sfondi vari: la sola libertà dell’artista è: il mandolino! Corot sa bene che tale strumento è un elemento spurio nella realtà folklorica ciociara, non è esclusa anche qualche osservazione da parte della modella e perciò l’artista senza pertanto venir meno al suo progetto, non fa che dipingere un tamburello sul pavimento, a guisa di risarcimento sociale e artistico e di impareggiabile firma! Tra le circa trecento opere con donne compiute nei quindici anni a venire questa fa parte delle undici-dodici folkloricamente ciociare e, salvo le poche unità in abiti greci o orientali, gran parte delle altre pure in abiti ciociari ma poeticamente e sentimentalmente assemblati.
Immediatamente dopo questa opera, Agostina ci si presenta negli abiti di Eva, quale ci mostra ‘Le Repos’ anche al Museo di Washington, dove pure è presente il tamburello di Agostina, più discretamente indicato!
Seguirà nel corso di questa collaborazione durata almeno tredici anni una serie di capolavori tra i quali, oltre a quelli più sopra ricordati, ‘La lettura Interrotta’ del Museo di Chicago, ‘La Dama in blu’ al Louvre, ‘Nymphe Couchée’ al Museo di Ginevra, ‘Baccante in riva al mare’ al MET di New York, la splendida ‘Cicala’ o ‘Grasshopper’ al Museo Norton Simon di Pasadena, USA.

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

Michele Santulli. Celestino, Rosalina e Rodin.

Forse si ignora che Auguste Rodin (1840-1917) è stato un autentico industriale della scultura a seguito della quantità enorme di soggetti in bronzo: migliaia di opere immesse sul mercato presenti in quasi tutti i musei e collezioni. Inutile richiamare alla memoria le opere che lo rendono immortale quali il Pensatore, il Bacio, la Donna accovacciata, Eva, il San Giovanni Battista, Iris… pertanto a nessuno di questi capolavori dedicò il tempo e l’attenzione e l’impegno di cui invece ritenne degno e meritevole il suo monumento allo scrittore Balzac.
In effetti la commissione affidatagli per la realizzazione di un monumento in onore del grande scrittore non ebbe successo; accurate e numerose furono le ricerche e investigazioni per pervenire alla individuazione dei maggiori elementi possibili sulla vita e personalità del romanziere: malgrado tale impegno i bozzetti non furono accettati e Rodin restituì l’anticipo versatogli a suo tempo. Personaggio troppo prestigioso, Balzac, per poter essere messo da parte così facilmente, per cui Rodin, accantonata la delusione cocente per l’insuccesso, continuò con la lavorazione e non poche furono le opere realizzate e acquistate da vari cultori: curioso costatare che gran parte erano soprattutto busti e ritratti che rispecchiavano il vero volto di Balzac.
Tali gratificazioni e tali conseguimenti non furono di sollievo e di accettazione da parte dell’artista: sentiva che qualcosa mancava al suo Balzac! E alla fine concluse che tale insoddisfazione risiedeva nel volto! E così ancora per altri anni continuò in silenzio ad occuparsi del Balzac e di un volto a suo parere idoneo e degno: tenuta in disparte e ignorata, in realtà è stata l’opera che maggiormente ha avvinto e perfino affascinato la sua personalità di artista, tanto che il suo biografo ha raccolto queste parole in merito: “La résultante de toute ma vie, le pivot méme de mon aesthétique” “la risultante di tutta la mia vita, il fulcro stesso della mia estetica”.
Invero il monumento a Balzac è stato il solo impegno artistico veramente sofferto e vissuto nella sua immensa produzione, che però il successo strepitoso di altre sue realizzazioni ha fatto passare sotto silenzio e perfino oscurato. Va rammentato che il Balzac lo ha impegnato negli ultimi anni della sua vita e la fusione in bronzo è stata eseguita oltre venti anni dopo la morte.
Rodin aveva frequenti rapporti con i modelli e le sue agende, blocchi per note e appunti contenevano lunghe liste di nominativi della più grande originalità e anche provenienza, numerose anche di Roma; quasi sempre affianco ai nomi, gli indirizzi, qualche descrizione fisica particolare, l’età, le sue impressioni e talvolta raramente anche il nome dell’opera relativa. Tra i nominativi, numerosi quegli italiani, sovente in una grafia strana e approssimata: tra questi un nome, secondo l’elenco della Signora Pinet, appare almeno due volte con cognome Prechi o Pechi o Peschi: Celestin o Celestino e affianco, le due volte, Balzac! Qui ci arrestiamo.
Così nel 1939, l’artista era morto nel 1917, il gesso originario lasciato nello studio fu fuso in bronzo e la scultura alta 2,75 m su un piedistallo in marmo alto circa 1,2 m, fu collocata all’intersezione stradale più gigantesca di Parigi, tra il Boulevard Raspail e il Boulevard du Montparnasse, dove si leva maestosa quasi di fronte all’antico famoso caffè La Rotonde e al più moderno Charivari. Ma chi è il Celestino di Rodin? Chi ne ha mai parlato e individuato?
E in questo momento si innesta la figura di un personaggio, che può darci la risposta, una donna, analfabeta, una domestica, piccolina alta 1,55 circa, alla quale il destino ha riservato un ruolo tale che oggi ancora per la comunità di lingua francese del pianeta, rappresenta quello che è la Marsigliese o la Rivoluzione o Napoleone o Coluche cioè un monumento vivente! Stiamo parlando della Semeuse, la Seminatrice, cioè la figura di donna che con gli abiti svolazzanti e un copricapo in testa, spande la sua semenza in giro nei campi: è stata presente per parecchi anni sulla monetazione d’argento fine ‘800-inizi ‘900, poi per molti anni sui francobolli, poi negli anni ’60 su una moneta d’argento e oggi sugli Euro. La domanda: quale la relazione con Celestino-Balzac? Negli anni passati lo scrivente ha non poco indagato e ricercato per venire a capo di certe situazioni della Storia riferite a certe sue componenti poco o per niente conosciute e chi è curioso può consultare in particolare “MODELLE E MODELLI CIOCIARI A ROMA, A PARIGI, A LONDRA NEL 1800-1900” e nel corso di tali indagini in Valcomino si è imbattuto, tra l’altro, nel Sig. Mario Franciosa residente a Clamart, un sobborgo di Parigi, che negli anni cinquanta aveva frequentato la Seminatrice ormai avanzata negli anni. E il Sig. Franciosa è stato depositario, unico, delle confidenze e racconti, anche intimi e personali, di Rosalina Pesce, il nome dunque della Seminatrice, nata nel 1886 in un paesino della Valcomino e poco dopo emigrata a Parigi!
E uno dei ricordi era il seguente: Rosalina che per molti anni aveva abitato con la madre nel cortile di un palazzo alla Avenue du Maine 51 con davanti l’Hotel de Paris, oggi ancora sui luoghi dove ha occupato tutto il piano terra, ogni volta che per il suo lavoro di domestica -aveva rinunciato al ruolo iniziale di modella perché non amava denudarsi- passava davanti al monumento a Balzac, il suo cuore, racconta il Sig.Franciosa, sobbalzava e lei si inteneriva! Il volto di Balzac, scavato dalla fatica, le occhiaie profonde rivolte lontano, i capelli al vento, era il volto del padre: Celestino di Rodin, il Balzac di Rodin, in realtà era effettivamente Celestino Pesce, il padre della Seminatrice, patrimonio della Francia!

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

Didascalie:
-Volto di Celestino-Balzac,
-Il monumento davanti a La Rotonde.

Michele Santulli. Camille Corot, il poeta della pittura.

Un celebre letterato, Théophile Gautier, scrisse: “Corot, le La Fontaine de la peinture” e tale quasi apodittica definizione non è applicabile con tale significato a nessun artista: in effetti il rapporto unico di Corot con la natura trova il suo analogo, in termini di purezza e verità e totalità, solo con quello di San Francesco d’Assisi. E qui vogliamo ricordarlo e allo stesso tempo sottolineare il ruolo esclusivo e impareggiabile del suo paesaggismo nel contesto dell’arte occidentale.
Dipingere “l’aria che fruscia tra i rami” o “la brezza sulle foglie dei salici” o “l’ombra degli alberi al sorgere del sole” o “come le foglie si tengono appese nell’aria” più in generale la natura in tutte le sue reali intime manifestazioni, questa fu la convissuta esistenza artistica di Corot. La natura era tutto: “prego tutti i giorni il buon Dio che mi mantenga fanciullo, che mi faccia vedere la natura e renderla come un fanciullo, senza preconcetti. La natura prima di tutto”.
Non aveva bisogno di trovare ispirazioni o motivazioni nei musei o altrove: assimilati i primi rudimenti necessari, tutta la sua opera scaturisce e matura a contatto permanente con la natura a lui circostante, reale e autentica, da lui, ecco la grandezza, filtrata e rispettata attraverso la sua anima sincera e i suoi sentimenti nonché le sue capacità di artista: “io canto con gli usignuoli”, “io sono l’uomo dei boschi e dei campi”, “faccio la corte all’aurora che saluto la mattina”. Un coinvolgimento ed identificazione totali.
Non leggeva giornali, non si occupava di politica: gli bastava la lettura di una pagina del solo libro a sua portata di mano, la Imitazione di Cristo. Si tenne distante dai circoli artistici dai quali, e per anni, in verità, venne catalogato riduttivamente a “paesaggista”, pari a una “proscrizione….persistente, di accanita mortificazione”. Ma le critiche non lo ferivano: il credo era: “essere se stessi e seguire solo la natura, quindi tutto bene!”, ”Lasciar parlare la natura e contentarsi del ruolo di sincero interprete”.
Il solo vincolo fu l’amore per i genitori, assieme alla devozione alla musica e al teatro: la libertà era completa, da ogni limitazione, sentimentale o finanziaria o di altra specie: il godimento erano le opere di bene che col suo successo di artista aumentavano continuamente e quanto anche lo gratificava enormemente erano le opere regalate a parenti ed amici e conoscenti oppure realizzate per chiese e istituzioni analoghe: queste erano le vere ricompense e retribuzioni che lo esaltavano!
“La pittura si esercita per far felici gli altri e non per soldi!” E questa era la molla rivoluzionaria della sua enorme laboriosità: di conseguenza una ricerca ed evoluzione sempre attive dello stile e della qualità: restava immutabile la considerazione che le sue opere, pur sofferte, erano pur sempre poca cosa rispetto alla maestosità della natura e alla grandezza della carità e anche al piacere che potevano arrecare al suo prossimo.
L’umiltà e la modestia di “questo cuore d’oro” erano tali che definiva “quadrucci” “tableautins” le sue opere! E invero le dimensioni dei suoi quadri pur se ricchi di elementi rifiniti al meglio, sono estremamente ridotte: per esempio 16×25, 20×21, 14×22, 13×26,25×26, raramente 50×70 e ancora più rare quelle superiori. Epperò questi quadrucci sono un mondo di completezza, di raffinatezza, di amore: se i criteri di valutazione e di giudizio restano quelli dettati dalle opere cosiddette classiche dell’arte universale sintetizzati nella celebre formula di “ingenuità nobile e grandezza silenziosa”, allora possiamo sostenere che ancora siamo lontani dalla comprensione reale e definitiva della grandezza effettiva di Corot.
Dipingendo solo la natura e il paesaggio era portato a continue dislocazioni in tutta la Francia, senza ricordare quelle durante il lungo soggiorno in Italia: un aspetto anche incredibile, in che modo riuscisse a tenere a mente la quantità di luoghi visitati e riportati sotto le opere: qualcuno ha parlato di un “geografo fantastico”. Famoso il suo abbigliamento così modesto, famoso il suo cappello diventato col tempo una vera e propria tavolozza, talmente imbevuto di colori.
Il suo primo riconoscimento da fuori gli venne all’età di 50 anni allorché in una mostra parigina lo Stato lo insignì della Croce di Cavaliere della Legion d’Onore: pur tuttavia il suo paesaggismo “all’aria aperta” incontrava ancora poca approvazione in un secolo dominato dalle personalità di Ingres, di Delacroix, da quella spavalda di Courbet e altresì all’insegna dell’impressionismo; ma a lui bastava “essere l’interprete sincero della voce della natura”, essere sé stesso e non seguire nessuno perché aderire o abbracciare una scuola o un altro artista implicava, diceva, “arrivare sempre dietro, non essere mai sé stesso!”
Fu ormai avanti negli anni, verso il 1850, che il riconoscimento lo prese di mira, Baudelaire aveva scritto: “Corot dipinge come i grandi maestri. La potenza di Corot…” e Théophile Gautier qualche anno più tardi colpì veramente nel segno: “Corot è un poeta: solo che usa il pennello…” E Monet all’amico Boudin dirà dei quadri esposti alla mostra: ”I Corot sono una semplice meraviglia…” Infiniti altri gli elogi successivi. E perciò il successo le richieste degli amatori, lo studio era diventato una continua folla, tanto che dovette servirsi di altri due ateliers per limitare i contatti con la gente, sia compratori, sia giornalisti, sia critici. Anche tanti soldi, i suoi “quadrucci” raggiunsero cifre a quell’epoca sbalorditivi, anche 25.000 Fr: si pensi che ancora trenta anni dopo Picasso vendette quel suo capolavoro “Ragazza col bouquet” per 75 Fr! e alla fine di “ogni anno apriva le chiuse” cioè distribuiva tutto a nipoti, parenti, amici e, soprattutto, alla beneficenza! Migliaia di Franchi allo Stato per fabbricare cannoni e cacciare i prussiani, diecimila Franchi (grandi cifre a quell’epoca) alla vedova Millet; al povero Daumier che abitava in una casa umida e malsana indegna di un così grande artista, diede incarico di farla restaurare e di comprarla e regalarla all’artista, ma quanto credo colpirà tutti non è solo la quasi quotidiana processione di indigenti al suo studio quanto l’amore che le Suore di Carità di San Vincenzo dé Paola di Parigi, nella persona in particolare di quella che periodicamente passava da lui, Suor Maria, che gestivano un asilo per trovatelli, come onorarono “quest’uomo di bene e di pace”: nella sala di rappresentanza avevano appeso una grande foto di Corot e, veramente toccante e commovente, nella corsia dove erano allineate le culle, immediatamente sotto il crocefisso, era appesa sul muro anche la foto del grande artista! Dobbiamo questa notizia e la relativa immagine che godiamo a far conoscere qui appresso per la prima volta, al suo amato amico e ermeneuta Alfred Robaut.
Sul letto di morte, recriminò solamente: “non posso andare più a stare con gli uccelli nei boschi e nei campi”.
Al cimitero Père Lachaise di Parigi, anche qui la commozione stringe il cuore alla visione del bene e dell’amore che questo umile messaggero della natura e della carità e dell’arte seppe suscitare: l’amico pittore Daubigny, morto tre anni dopo, volle farsi seppellire accanto a lui e l’anno dopo anche Daumier volle riposare per sempre affianco.

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu