Archivi categoria: Beni da salvare

“ACQUA COME RISORSA” Elemento vitale. Fondamento nella storia, nel paesaggio, nell’economia, nella cultura, nella tradizione.

BANDO DI CONCORSO – Premio Triveneto “Ermanno Contelli” – I^ edizione
Scadenza 26 OTTOBRE 2024

Il “Gruppo Archeologico Acilius” di Pasiano di Pordenone, con il patrocinio della Regione Fvg, del Comune di Pasiano, della SFA Società Friulana di Archeologia e LTA Livenza Tagliamento Acque e con la collaborazione della Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia e dell’Istituto Comprensivo Scolastico Statale di Pasiano, per adempiere alle volontà di Franca Da Ros di destinare premi di studio in memoria del marito Ermanno Contelli (1940-2021 Pasiano), ricercatore, storico, maestro elementare, scrittore, giornalista, uomo di cultura, testimone arguto e attento del territorio, bandisce un concorso annuale per tre categorie di premi di studio destinato a:
– studenti o ex studenti universitari di corsi di laurea triennale o magistrale o a ciclo unico, studenti di corsi universitari post laurea, specializzandi, dottorandi delle Università del Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige;
– studenti delle scuole secondarie di secondo grado, statali e paritarie, di Pordenone e della sua provincia;
– studenti della scuola secondaria di primo grado di Pasiano di Pordenone.

Per maggiori informazioni si rimanda all’allegato: BANDO Contelli

La partecipazione al premio è libera e gratuita.

Info:
“Gruppo Archeologico Acilius” – Pasiano di Pordenone (PN) – via Roma n.115 (Provvisoriamente c/o BIBLIOTECA CIVICA Largo G.Clemente n.1) – e-mail: pasiano@acilius.it – tel: 330.898853, 340.3260065, 347.4149638
E’ gradito preventivo avviso msg WhatsApp
sito: www.acilius.it
Orario di apertura: dal lunedì al venerdì dalle ore 8:00 alle ore 12:30

Michele Santulli. Sgarbi e il costume ciociaro.

Eppure è proprio così, la sensibilità e l’apertura mentale e la curiosità nonché, va ricordato, il coraggio e la intransigenza dell’uomo, oltre ad essere suoi sentimenti connaturati e viscerali, sono enormemente al di sopra delle risibili critiche che gli si possono muovere in certe apparizioni pubbliche, pur sempre all’insegna della coerenza e dell’impegno personali.
Di quale altro merito si è reso dunque creditore questo rarissimo personaggio d’arte e di cultura, in Arpino, città di cui è stato unanimamente eletto sindaco?
Domenica 20 p.v., mi conferma la ProLoco, assieme alle contrade di Arpino che rappresentano il Gonfalone, una manifestazione folkloristica che si ripete da molti anni, l’On. Sgarbi e la giunta comunale sfileranno indossando il costume ciociaro!! Un fatto eccezionale, un qualcosa di unico mai avvenuto prima! Basti pensare che i cosiddetti uomini politici, e non solo quelli. che si sono alternati in tutti questi anni in Ciociaria e cioè nella provincia di FR, di LT e in parte di quella di Roma, mai nessuno, a parte la cementificazione criminale e gli intrallazzi, si è mai accorto di questa realtà del costume ciociaro, addirittura non pochi, ancora oggi, nella loro catastrofica ignoranza e relativa arroganza lo identificano con qualcosa di cui vergognarsi!!! Cioè i tirolesi, gli scozzesi, i bavaresi, gli olandesi, ecc. sono onorati, orgogliosi e consapevoli del valore del loro abito tradizionale che indossano normalmente in ogni circostanza pubblica e privata, da sempre, oggi ancora di più proprio per tenere vive le comuni radici ed identità, da noi il costume ciociaro, il più celebre e il più decantato di tutti, è motivo di disonore!!!
Quale nemesi, quale ignominia. Infatti il costume ciociaro, nell’arte europea del milleottocento, e non solo nella pittura, è il soggetto più illustrato e più amato dagli artisti europei, perfino la crema lo ha dipinto: Degas, Corot, Manet, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Picasso, Leighton, Briullov, Sargent, perfino i futuristi, nessun soggetto pittorico vanta tali firme…e questi poveracci politici nostrani si vergognano! E hanno inoltre ignorato una autentica gloria di valore internazionale.
Nella quasi totalità dei musei e gallerie del pianeta si può essere certi di vedere appesa alle pareti almeno un’opera che illustra una scena pastorale o una ciociarella, o un pifferaro o un pecoraio o un brigante: non c’è nell’ambito della pittura occidentale, a cavallo tra fine 1700 e prime decadi del 1900, un altro soggetto che possa anche lontanamente avvicinarsi a tale successo!
Quale occasione per il costume ciociaro e per il mondo dell’arte l’apparizione di Vittorio Sgarbi in questa terra tanto trascurata eppure tanto preziosa.
Ritorneremo sul tema affascinante e rivoluzionario con la presentazione delle immagini di Sgarbi ciociaro.
Questo evento certamente sarà l’inizio di una inversione anzi l’inizio del nuovo percorso.
Per eventuali dettagli rivolgersi al sito del Gonfalone o alla ProLoco di Arpino.
Che i sindaci, i cosiddetti politici, soprattutto gli insegnanti di ogni ordine, tuti i cittadini dotati di un pizzico di sensibilità ed amore del bello, assistano alla sfilata e ne traggano godimento e ammonimento.

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

 

Michele Santulli. I mostri.

E il solo modo corretto di definire lo spettacolo che si offre al viaggiatore, almeno a quelli che sanno leggere la realtà e capirne il senso. E’ stata letteralmente stravolta la conformazione dell’albero quale giunta a noi dopo milioni di anni e cioè sempre con un tronco, con i rami, una chioma verde. Ora lo scenario è quello che si osserva in giro, sicuramente in certe regioni….
Come le presenti immagini illustrano, qui gli alberi vengono trattati in modo non barbarico bensì criminale. Già Van Gogh, che parlava con la natura e con gli alberi, in non poche sue opere ci ha illustrato e allo stesso modo criticato e sanzionato, come in certe regioni anche alla sua epoca per mera ignoranza venivano capitozzati gli alberi, con il risultato tra l’altro di quei rametti ridicoli che si levano dal tronco ormai nudo, come ha illustrato in non poche sue opere. E qui dopo centocinquantanni, siamo allo stesso punto, non si conosce ancora da parte delle amministrazioni che cosa è potare e che cosa capitozzare cioè quasi sempre potare a morte l’albero, come tanti alberi in piedi senza più rami e come tanti cadaveri pure in piedi lungo le strade provano e documentano.
Grande è la indifferenza generale, per fortuna degli autori di questi veri e propri misfatti a sfregio del patrimonio naturale comune. Perché ci sono degli autori e promotori di tali scelleratezze, in gran parte le pubbliche amministrazioni, o per loro interessi particolari o per spudorata ignoranza, come ai tempi di Van Gogh!
Potare è apparentemente semplice quando si tratta del proprio giardino o del proprio campicello, direi un’impresa impegnativa e professionale quando si tratta di ridare vita o di promuovere e conservare la vita di un albero: operazione, la potatura, di estremo significato quando si riferisce alla produzione e alla coltivazione.
Se si aguzza la vista quando si è in macchina principalmente, ma anche a piedi, non solo si vive ormai il deserto lungo le strade salvo la cementificazione volgare e l’annientamento degli alberi quali pini, querce, platani e analoghi: sembrerebbe esserci la precisa volontà, se non libidine vera e propria, dell’abbattimento e dello sterminio.
Naturalmente tale situazione è tipica non solo quando il pubblico amministratore è a livello della povera capra sgarbiana ma parimenti, ancora peggio, quando il sindaco stesso è acculturato! Senza parlare delle amministrazioni provinciali, dei vari assessori regionali, ecc. i più assenti e insensibili. Non si spiega diversamente come mai avviene, per esempio, che sulla medesima strada a seconda dei comuni, si alternano i deserti e le oasi di verde! Imperdonabile assistere a tale sfacelo degli abbattimenti sempre immotivati o per incapacità nella potatura o a causa della capitozzatura e mai assistere a una piantumazione o, miracolo vero e proprio, alla gestione e manutenzione dell’esistente.
Ridicole feste in cui si coinvolgono gli alunni da mezzo secolo nelle cosiddette feste degli alberi e mai visto un albero cresciuto e manutenuto!
Non vogliamo ricordare, vista la noncuranza e il disinteresse vero e proprio dell’ONU, l’eccidio autentico, a danno enorme della umanità, che ancora oggi si sta perpetrando nelle foreste dell’Africa Centrale o nell’Amazzonia o in certi paesi dell’America Centrale dove fino a pochi anni fa crescevano alberi della più grande qualità e prerogativa che, nel passato, hanno impreziosito il mobilio di mezza Europa per secoli: tutto si avvia all’estinzione, assieme agli animali selvaggi che hanno accompagnato l’uomo nella sua esistenza dall’inizio: crescono e aumentano esponenzialmente solamente i bipedi!

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

MAGLIANO IN TOSCANA (Gr). Tra le rovine di San Bruzio, antico monastero della Maremma toscana.

Vento, cicale, calma. Le rovine del monastero di San Bruzio s’ergono sul dosso tondeggiante d’un morbido poggio, nascosto tra i campi, lungo la provinciale che dal castello di Marsiliana conduce fino al borgo di Magliano, ancora stretto nel cerchio imperioso delle sue mura di pietra e travertino. La strada striscia in mezzo alle campagne deserte e dorate della Maremma toscana, bruciate dal caldo d’un’estate infinita. Ogni tanto un boschetto di lecci, macchie d’ombra come miraggi al riparo dai dardi infuocati d’un sole tenace, inflessibile, prepotente. Sulla destra, arrivando dal bivio con la strada regionale, sfila la rete di metallo che protegge la necropoli etrusca. Un filare d’oleandri segnala la presenza d’un agriturismo solitario. A metà strada torreggia un circoletto d’altissimi cipressi, che paiono messi lì a far da guardia ai poderi coltivati. E poi, nel silenzio, dopo una curva, ecco in lontananza San Bruzio a rinfrancare la veduta.
L’esigenze del turismo moderno hanno evidentemente imposto agli amministratori locali la necessità d’aprire un parcheggio, non segnalato: lo si trova d’improvviso, ordinata distesa di polvere e ghiaia che giace lungo il bordo della provinciale. Nessun mezzo posteggiato. Dalla parte opposta, un sentierino di terra battuta guida il viaggiatore verso quel che resta dell’antico monastero dell’undicesimo secolo. Oggi San Bruzio è una deviazione dalle rotte di chi attraversa per lungo e per largo le terre di Maremma. Distante, il rettilineo dell’Aurelia trascina orde d’indomabili vacanzieri, mescolando i mezzi di chi raggiunge le ville e gli alberghi di lusso dell’Argentario, e quelli di chi arranca verso i campeggi che stanno tra Fonteblanda e Albinia, paesoni dove tutto è ancora semplice, dove tutto è ancora sincero, dove la vita scorre lenta tra una sagra del pesce e un gelato in piazza, dove ancora arrivano gli eredi di quelli che una volta si chiamavano “villeggianti”, calavano dalle regioni del nord Italia, e ogni estate, cascasse il mondo, dormivano per settimane nelle stesse case, si sfamavano negli stessi locali, prendevano il sole sulla stessa spiaggia.
È sul litorale oggi la vita. In antico, invece, s’evitava con cura di disegnare tragitti che passassero lungo la costa: la Maremma era un’enorme palude, sconfinata, mortifera, infestata di briganti. C’era dunque il serio rischio di non tornare vivi dal proprio viaggio, e si passava dal più salubre e civilizzato entroterra. Da queste parti, poi, forse non passavano neppure tanti pellegrini, che per dirigersi a Roma preferivano percorrere gl’itinerarî del senese, accolti dai monaci di Sant’Antimo, da quelli di San Michele a Poggibonsi, di San Galgano, di Abbadia a Isola, dei tanti monasteri che punteggiavano la Val d’Orcia, le Crete, la Val d’Elsa, le colline attorno all’Amiata. Nella Maremma selvaggia, più lontana dalle vie del pellegrinaggio, le abbazie erano soprattutto luoghi di produzione, aziende agricole avanti lettera, grance fortificate gestite da frati e monaci, lungo la strada che dall’Amiata scendeva verso il porto di Talamone, nelle terre che furono degli Aldobrandeschi. E offrivano riparo non tanto a chi era in viaggio verso la Città Eterna ma, forse meno romanticamente, ai lavoratori delle saline alla foce dell’Albegna e a quelli delle miniere di ferro che si muovevano tra le montagne e il mare. Magari poteva accadere, ogni tanto, che qualche sparuto viandante s’avventurasse per queste campagne, fino a spingersi a lambire la riviera: tra i ruderi dell’abbazia di San Rabano ad Alberese, poco distante da San Bruzio, venne rinvenuta un’insegna di pellegrinaggio recante l’immagine di san Nicola. Segno che qualcuno doveva passare anche per queste piane poco frequentate. Non è però dato sapere se anche San Bruzio si prestasse a far da ricovero ai pellegrini.
Di questo complesso sappiamo poco e niente. Il fatto che fosse dedicato a un santo inusuale, san Tiburzio martire, storpiato in “Bruzio” dai parlanti locali, non aiuta a far luce. Non sappiamo quando San Bruzio fu costruita, anche se il linguaggio di quel ch’è rimasto asseconda l’idea che la prima pietra dovette esser posata molto prima del Duecento. Non sappiamo come doveva essere quand’era integra. Non sappiamo quando fu abbandonata. Non sappiamo perché venne distrutta. Non siamo neppure certi che qui ci fosse una comunità monastica, anche se ci sono ottime possibilità che siano stati i benedettini a costruire la struttura: l’ipotesi è confortata dalle evidenze stilistiche che si possono riscontrare in mezzo alle rovine. Un erudito maremmano dei primi del Novecento, tale Carlo Alberto Nicolosi, autore d’alcuni libri su queste terre, si divertì a immaginare che la chiesa di San Bruzio fosse rimasta incompiuta: solide le rovine sopravvissute, assenti tracce d’intonaco o d’abbellimenti, e tanto bastava allo studioso per figurarsi una fabbrica che a un certo punto della storia restò interrotta, per chissà quali motivi. Non fu così: ci sono documenti antichi che attestano comunque una presenza a San Bruzio. Nel 1216, la “chiesa di S. Tiburzio di Malliano” è menzionata come dipendenza dell’abbazia di Sant’Antimo. Nel 1276 e poi ancora nel 1321 è citata negli elenchi delle decime. Nel 1356 figura tra gli Statuti del Comune di Magliano, dove ai cittadini viene imposta una tassa per riparare il tetto della chiesa. Poi le fonti tacciono.
Il capocroce, la parte della chiesa che sta oltre il transetto, è tutto quello che resta di San Bruzio. Facendo ovvia eccezione per le pietre sparse a terra tutt’intorno. Sulle prime, quando ci si trova ancora sul sentiero, sembra che i ruderi dell’antica chiesa monastica anneghino tra gli ulivi. Poi, quando s’arriva di fronte alle rovine, ci si sente come sconvolti, sopraffatti, sovrastati dalla loro imponente gravità. Nel Settecento, gli abitanti della zona chiamavano San Bruzio il “tempio pagano”: non sapevano dare altra spiegazione a quei resti, e alle sculture che ancora ornano i suoi capitelli, un linguaggio figurativo del quale avevano perso memoria. Ma come noi oggi, anche loro avvertivano un senso d’inquietudine dinnanzi alla solenne maestà delle rovine di San Bruzio. Forse neppure s’azzardavano a metterci piede dentro, forse s’avvicinavano con un certo timore a quella strana costruzione ferita, monca, sfigurata, della quale sapevano poco meno di quel che sappiamo noi.
E chissà se, tre secoli fa, San Bruzio si presentava già come si presenta adesso. Saliti sul poggio, si viene accolti dalla forma geometrica dell’arco trionfale, oltre il quale, guardando frontalmente la chiesa diroccata, rimangono brandelli delle pareti del transetto, e una sezione del tiburio, fornito di monofore su quattro lati, poggiante su altrettanti possenti archi. Persa completamente l’aula, non rimangono che il presbiterio, i monconi dei bracci del transetto con la struttura portante in pietra calcarea, e l’abside semicircolare, decorata all’esterno con coppie di archetti pensili separate da lesene che creano cinque sezioni regolari, dove s’aprono tre monofore. Si supera l’arco trionfale, ci si mette al centro del presbiterio e si volge lo sguardo verso l’alto: sopra il tiburio s’innestava un tempo una cupola che immaginiamo alta e maestosa, dacché solo le rovine raggiungono dal suolo un’altezza d’una quindicina di metri. Qualcosa di simile alla cupola della chiesa abbaziale di Santa Maria Assunta a Colle Val d’Elsa: San Bruzio doveva avere un aspetto non troppo dissimile. Adesso vediamo invece un ottagono aperto sul cielo, con qualche pianta infestante a privare lo sguardo d’una porzione d’azzurro. I bracci del transetto erano un tempo coperti da volte a crociera, che adesso possiamo soltanto intuire. Tra il presbiterio e il tiburio si percepiscono con solare chiarezza le norme d’equilibrio che guidarono gli antichi architetti: l’aspetto delle rovine, “che ha resistito al tempo”, scriveva Mario Salmi, “è nitidamente geometrico nella cupola su nicchie, ed i capitelli ancora in essere presentano un’armonica commistione di elementi zoomorfici e vegetali di intenso plasticismo”. Il grande studioso riteneva che i capitelli di San Bruzio fossero vicini a quelli di Sant’Antimo “per nettezza di segno, per rilievo, per analogia dei motivi tradotti e persino per il minuto piegheggiare concentrico delle vesti”.
Lo stile dei capitelli, la finezza delle decorazioni, il rigore geometrico dei conci di travertino usati per la costruzione, oltre ai rigorosi rapporti dimensionali tra i varî elementi dell’edificio, hanno indotto e inducono a pensare che gli architetti attivi a San Bruzio fossero d’origine lombarda, forse maestri comacini, ch’ebbero il merito di costruire, sotto il borgo di Magliano, un edificio che non ha eguali. Un unicum, l’hanno definito gli studiosi Barbara Aterini e Alessandro Nocentini, somma di “varie esperienze architettoniche e che”, spiega Nocentini, “tra quelle dell’Abbazia di San Rabano o della pieve di Sovana risulta essere la più antica per coerenza morfologica del paramento murario, ed esprime una correttezza geometrico-statica possedendo una forma armoniosa e geometrie genialmente semplici”. E semplici sono anche le figure rimaste sui capitelli: fiori, motivi vegetali, tre elementi (una protome bovina, un leone, forse un angelo) che sembrerebbero i simboli di tre evangelisti, una bizzarra figura antropomorfa col corpo che assume una postura innaturale e la testa girata di centottanta gradi. Forse la personificazione d’un qualche peccato: il soggetto è raro, ma presente nelle chiese romaniche, anche a molta distanza da qua. Vuole una tradizione che a Bologna, guardando figure simili, Dante abbia tratto ispirazione per le punizioni inflitte ai dannati della sua Commedia. Anche i capitelli di San Bruzio lasciano supporre la presenza di maestri lombardi, che hanno portato in Toscana i repertorî tipici del Settentrione.
In mezzo a tanto sfacelo, la parete interna dell’abside s’è conservata piuttosto bene, coi suoi conci lisci e regolari di travertino: se prima d’entrare si provava un senso di riverente disagio, adesso si comincia ad avvertire un’ombra di tranquillità, quell’impressione di limpida quiete contemplativa che si riesce a provare solo dentro a una chiesa romanica, dentro a uno di quegli antichi templi così semplici, così severi, che Giovanni Lindo Ferretti, tenendo a mente le pievi romaniche della Lunigiana, riteneva più rispondenti a un’idea di chiesa pura, “cassa armonica in mattone o pietra, perfetta per il culto e la preghiera, l’ascolto, l’abbandono interiore, la comunità orante, l’accoglienza del corpo e il librarsi dell’anima allo Spirito”. A San Bruzio, quest’abbandono è amplificato dai suoni della natura, dalla brezza leggera di sale che s’insinua tra le rovine e scuote con dolcezza le fronde degli ulivi, dal canto monotono e cadenzato delle tortore, dalle piante che han preso possesso delle pietre, uniche presenze vive nella chiesa dove un tempo officiavano i benedettini, dal tiburio scoperchiato che invita ad alzare gli occhi e a guardare per un attimo l’infinito. La divinità, allora, vive dentro ogni anfratto, impregna ogni pietra, ogni opera umana, è nella brezza, negli ulivi, nelle tortore, nel cielo, pulsa in ogni singolo filo d’erba che circonda la chiesa di San Bruzio e, all’interno, le fa da pavimento.
L’inizio della storia di San Bruzio si perde nelle nebbie del Medioevo, la sua fine è stata inghiottita dal tempo. Nessuna traccia a testimoniare le ragioni della rovina del complesso, se per un evento naturale o per la devastazione operata dall’essere umano. Forse semplicemente abbandonato perché mutata la situazione economica, in corrispondenza col passaggio dei feudi degli Aldobrandeschi sotto il dominio della Repubblica di Siena. Forse la rovina di San Bruzio è legata alle vicende del porto di Talamone, passato a Siena agl’inizî del Trecento, e tenuto dai nuovi dominatori con enorme difficoltà, a causa dell’avversione dei turbolenti vicini pisani, che non persero occasione d’attaccare più volte lo scalo maremmano, ostili alle politiche marittime dei senesi. Fatto è che, dal quindicesimo secolo, si perde qualunque indizio documentario sul monastero. San Bruzio continuò forse per qualche tempo a offrire occasionale riparo a qualche pastore della zona, come lascerebbero intendere i frammenti di ceramica sei e settecenteschi trovati negli scavi archeologici che hanno interessato la struttura. Poi, secoli di buio e di silenzio. Sono morti gli Aldobrandeschi, ruderi i loro castelli. Morti i monaci benedettini, crollati i loro monasteri, morti i carratori che a Talamone caricavano il ferro dell’Isola d’Elba e lo portavano nei centri di lavorazione della Maremma interna. Con l’immaginazione, forse, si può ancora immaginare San Bruzio come il luogo vivo ch’era tra il Due e il Trecento. Immaginare i monaci in preghiera, a studiare, a lavorare, sentire il suono dei loro passi sulle pietre. Immaginare le voci dei carratori e dei lavoratori delle saline che arrivavano qui bestemmiando Dio, la Madonna e tutti i santi per la loro vita grama. Immaginare quello che doveva essere un tempo questo luogo. In antico brulicante di vita, inserito in un sistema di centri produttivi, di depositi, di fortezze, di assi viarî. Oggi avvolto dal silenzio delle campagne di Maremma.

Autore articolo e immagini: Federico Giannini

Fonte: www.finestresullarte.info, 6 ago 2023

AGNONE (Is). L’appello internazionale per salvare i dipinti del Convento di San Francesco.

“Rivolgo unitamente ai colleghi e amici, autorevoli studiosi e personalità della cultura italiana ed europea un accorato appello affinché si possano reperire i fondi necessari per il pronto intervento di restauro del quarto soffitto dell’antico Convento Francescano di Agnone, dipinto nel Settecento da maestranze napoletane. Oggi purtroppo è talmente deteriorato da farne temere la definitiva scomparsa”. Sono queste le parole di Mino Gabriele, professore di Iconografia e iconologia e di Scienza e filologia delle immagini all’Università di Udine, che ha studiato le opere che adornano i soffitti del Convento di San Francesco, attiguo alla Chiesa di San Francesco ad Agnone (in Molise), e che ora chiede vengano salvati dalla distruzione.

Il-quarto-soffitto-del-Convento-di-San-Francesco-di-Agnone

Si tratta in particolare di un soffitto a preoccupare gli studiosi, su cui sono stati realizzati nel Settecento dei preziosi dipinti dalle maestranze napoletane: un grande patrimonio storico-artistico che rischia di andar perso se non ci sarà un accurato restauro per evitarne il deterioramento. “Serve avere la consapevolezza che se non si interviene subito perderemo l’eccezionale monumento, che costituisce, tra l’altro, la testimonianza della nobile tradizione culturale e tecnica di Agnone, in riferimento alla lavorazione dell’oro, del rame e della fusione delle campane, di cui la città è stata ed è maestra”, spiega il professor Gabriele.

Il-quarto-soffitto-del-Convento-di-San-Francesco-di-Agnone-1

È cosi che il professore ha deciso di inviare un appello alla Soprintendenza del Molise e al sindaco di Agnone Daniele Saia, alla cui iniziativa si sono unite circa cinquanta personalità del mondo della cultura provenienti da Italia, Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Antille e Polonia che hanno condiviso le preoccupazioni di Gabriele chiedendo che vengano reperite delle risorse per far tornare agli antichi splendori il quarto soffitto dell’antico Convento francescano, luogo che peraltro ad oggi è la sede della biblioteca comunale. Forse, con le nuove adesioni in arrivo, sarà possibile reperire i fondi necessari per la tutela di questa testimonianza della storia e della cultura italiana.

Info: https://www.cattedraleisernia.org

Autore: Gloria Vergani

Fonte: www.artribune.com, 19 mar 2023