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Michele Santulli. Un grande scultore americano e la Ciociaria.

Come ormai ben noto ai milioni di cultori che ogni giorno entrano nei musei in tutto il pianeta, l’uomo o la donna o altro soggetto in costume ciociaro rappresentano una immagine classica e consolidata nel panorama dell’arte occidentale del 1800. Una nota negativa, allo stesso tempo non onorevole, sotto certi aspetti, afferenti ovviamente non i visitatori, è il fatto che tali soggetti pur dunque universalmente ammirati e celebrati, siano senza nome, anonimi! E le connotazioni le più varie quali italiano, regionale, tradizionale, napoletano, abruzzese, romano, zingaro, savoiardo, basco, ecc. vengono impiegate per connotarli: non esiste un soggetto tanto conosciuto e allo stesso tempo così ignorato. E la cosa è particolarmente imbarazzante, alla costatazione che detti soggetti non solamente sono stati dipinti o scolpiti dalla gran parte degli artisti europei dell’epoca come nessun altro soggetto specifico, fatto di per sé straordinario ed unico, quanto sono stati letteralmente immortalati anche dai titani dell’arte di quel secolo, tanto per citarne qualcuno: Degas, Corot, Manet, Cézanne, Van Gogh, Picasso, Severini, Leighton, Sargent, Whistler, Briullov….
Non esiste un altro soggetto nemmeno lontanamente che abbia attratto questi giganti dell’arte! E avviene che la lista dei grandi artisti cultori del personaggio ciociaro, pur se raramente, tende ad ingrossarsi con nuove scoperte: si ricorderà che qualche tempo addietro abbiamo fatto la conoscenza di un’opera ciociara dipinta da uno di questi grandi maestri della pittura e del disegno del milleottocento, di Honoré Daumier, incontestabilmente il maggiore illustratore e vignettista ed anche notevole scultore e pittore dell’epoca. E alla metà del secolo, rigurgitante per la prima volta di moti e sommosse indipendentisti in tutta Europa, anche Daumier, sensibile ed attento quale era, non potette ignorare tale realtà e volle pensare all’Italia: avendo in mente la famosa immagine di Gulliver, il gigante tenuto legato e assaltato da tanti ometti, immaginò anche l’Italia nelle vesti di questo gigante che si svegliava -Le Réveil d’Italie- circondato da tanti soldatini che combattono tutto intorno contro il nemico: e questo gigante, personificazione dell’Italia che si svegliava alla lotta, non era come, si potrebbe pensare, Cavour o Mazzini o Garibaldi; era un ciociaro! cioè l’artista ritenne che il risveglio dell’Italia alla lotta per la sua indipendenza fosse più lucidamente e congruamente illustrato da un italiano tipico e veramente conosciuto, e non solo in Francia, da un ciociaro dunque, piuttosto che da qualche paludato uomo politico.
Si ricordi che in effetti questa umanità, per necessità nomade e girovaga, di artisti ambulanti quali il pifferaro, lo zampognaro, la ballerina col tamburello, erano uno spettacolo consueto per le vie dell’Europa.
Un secondo significativo artista ad occuparsi di queste creature della Ciociaria presenti per le vie del mondo fu uno scultore americano del 1800 tra i più conosciuti, vissuto lungamente a Firenze, Larkin G. Mead (1835-1910). E tra le sue opere, in gran parte pubblici monumenti in America, è stato individuato a parer mio un vero raro suo capolavoro e cioè una ciociara in grandezza naturale in terracotta, in costume, splendida a guardarsi, proprietà, purtroppo, di un privato collezionista: dico purtroppo non per sminuire la bontà e la passione del collezionista ma per il dispiacere che un’opera del genere non possa essere fatta oggetto di gratificazione e di acculturazione pubbliche da parte della gente comune!
E qui tocchiano un tema così delicato e grave che è opportuno non affrontare e che viene rimesso ai lettori di valutare. Non si conoscono le motivazioni e le eventuali occasioni alla base dell’interesse di Larkin G. Mead per questa ciociarella, pur ricordando che non pochi artisti fiorentini si erano occupati intensamente di tali soggetti ciociari quali Luigi Bechi, Vito d’Ancona, Telemaco Signorini stesso che se ne fece particolare promotore e anche Giovanni Fattori con ritratti di ciociare e numerose immagini all’acquaforte realizzate in occasione di un suo viaggio a Bauco oggi Boville Ernica: può darsi un sopraggiunto interesse alla vista di questa splendida ciociara oppure una commissione da parte di qualche cultore o collezionista, chissà. Certamente, è anche vero, che a Firenze non mancavano le evenienze per imbattersi, come ricordato più sopra, in questa umanità girovaga: pifferari, zampognari, ragazze col tamburello… numerose le occasioni a base dei loro spostamenti in tutto il Paese.

Autore: Michele Santulli – michele@santulli.eu

Didascalia immagine: Larkin G.M EAD: Ciociara, terracotta, h.1,72 m. Coll.priv.

PAOLO UCCELLO. Il “gran et bel facto d’arme”. La Battaglia di San Romano.

La Battaglia di San Romano è forse l’opera più celebre di Paolo Uccello (Paolo di Dono; Firenze, 1397 – 1475). Il ciclo è composto da tre tavole, conservate in tre diversi musei e racconta un fatto d’armi del 1432: la battaglia combattuta a San Romano tra fiorentini e senesi.
San Romano, 1° giugno 1432. In questa piana, tra Montopoli e Pontedera, si svolse il “gran et bel facto d’arme”, secondo le parole del cronista Guerriero da Gubbio, che non ebbe un effetto decisivo nella guerra che da tre anni opponeva Firenze a Lucca e ai suoi alleati, ma che ebbe il potere, in un momento di difficoltà per la città gigliata, di risollevarne gli animi e diede poi l’occasione a Paolo Uccello di dipingere il suo capolavoro.
Varie fonti parlano di un combattimento durato più di otto ore, dalla mattina al tramonto, che coinvolse, per la parte fiorentina capitanata da Niccolò Mauruzzi da Tolentino, circa 2000 cavalieri e 1500 fanti, mentre il fronte nemico era formato da una più folta compagine di milizie senesi, genovesi, viscontee e imperiali, guidate da Alberico da Barbiano, da Bernardino Ubaldini della Carda (fino a poco tempo prima a capo dell’esercito della Repubblica fiorentina, ma inaspettatamente passato allo schieramento avverso) e da Antonio Petrucci. Giovanni Cavalcanti parla di una «zuffa grande e terribile», resa assordante dal clangore delle armi: «lo scoppio delle lance, e il martellamento delle spade, e il busso de’ cavalli, la terra con l’aria ne facevano mutamento». La giornata non si stava mettendo affatto bene per i fiorentini, ma al tramonto fu il provvidenziale intervento di Micheletto da Cotignola, chiamato in soccorso dal Tolentino, a capovolgere in maniera imprevista le sorti dello scontro.
Per molto tempo le tre tavole di Paolo Uccello oggi esposte alla Galleria degli Uffizi, alla National Gallery di Londra e al Musée du Louvre sono state ritenute frutto della committenza medicea, principalmente in virtù del fatto che nel 1492, all’indomani della morte di Lorenzo il Magnifico, esse si trovavano in Palazzo Medici a Firenze.
Ricerche svolte una ventina di anni fa da Francesco Caglioti hanno rivelato una storia assai diversa, che potremmo definire come l’affaire Bartolini Salimbeni. Oggi sappiamo come nel 1483 i fratelli Andrea e Damiano Bartolini Salimbeni, membri di una tra le famiglie più in vista della città, avessero portato le opere, ereditate dal padre Lionardo, nella loro villa di campagna a Santa Maria a Quinto. Il testé citato Lorenzo de’ Medici aveva ottenuto la metà della proprietà della terna di dipinti da Andrea, mentre Damiano era ben fermo a non cedere la propria parte, nonostante i tentativi svolti per persuaderlo a rinunciarvi. La determinazione di costui aveva spinto Lorenzo ad un gesto risolutivo: un suo emissario, noto come Francione, era stato inviato alla dimora fiorentina di Damiano, ove quest’ultimo aveva portato i tre dipinti, nel timore della loro sottrazione contro la sua volontà. Conosciamo tutti questi retroscena grazie ad un documento del 1495, dal quale apprendiamo come in precedenza lo stesso Damiano avesse inoltrato richiesta per la restituzione delle Battaglie, che dovevano dunque essergli state sottratte. In un momento in cui i Medici erano stati esiliati da Firenze, lo stesso atto disponeva circa la restituzione a Damiano della metà della proprietà, con il diritto di acquistare l’altra, a seguito della recente morte del fratello.

Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini (1438-1440 circa; tempera su tavola, 182 x 320 cm; Londra, National Gallery)
Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini (1438-1440 circa; tempera su tavola, 182 x 320 cm; Londra, National Gallery)

Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, Il disarcionamento di Bernardino della Carda (1438-1440 circa; tempera su tavola, 182 x 323 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)
Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, Il disarcionamento di Bernardino della Carda (1438-1440 circa; tempera su tavola, 182 x 323 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi)

Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, L’intervento di Micheletto da Cotignola (1438- 1440 circa; tempera su tavola, 182 x 317 cm; Parigi, Louvre)
Paolo Uccello, La Battaglia di San Romano, L’intervento di Micheletto da Cotignola (1438- 1440 circa; tempera su tavola, 182 x 317 cm; Parigi, Louvre).

Da dove vengono quindi i tre pannelli della Battaglia di San Romano? Verosimile loro committente fu il summenzionato Lionardo di Bartolomeo Bartolini Salimbeni (1404 – 1479), che conosciamo per altri episodî di patronato delle arti a Firenze: l’analisi dello stile conduce verso la fine degli anni Trenta e ciò coincide con un momento focale della vita del personaggio, quale fu il matrimonio con Maddalena di Giovanni Baroncelli, nel 1438, occasione che dovette portare all’abbellimento del palazzo in cui i coniugi avrebbero abitato, sito nei pressi della chiesa di Santa Trinita. Nella “Camera grande” di questo edificio un atto del 1480 documenta la presenza della “Rotta di Niccholò Piccinino”, che può riconoscersi nel ciclo uccellesco, giacché lo stesso soggetto è quello ricordato nella sopra citata delibera del 1495. In origine i dipinti non esibivano il formato rettangolare che vediamo oggi, ma si chiudevano in alto con un profilo arcuato, coerente con la loro destinazione in una sala coperta da volte e quindi dalle pareti interrotte da lunette, entro cui le tavole si incastonavano: non come gemme di una galleria di quadri, come sarebbe stato nell’allestimento poi creato da Lorenzo il Magnifico nel suo palazzo, ma quali elementi di arredo domestico, in maniera non molto dissimile dall’immagine che altre residenze dell’alta borghesia fiorentina potevano avere. Le manomissioni sui supporti sono la conseguenza dei varî spostamenti cui, come detto, le tavole andarono soggette.
La scelta dell’artefice cui affidare la commissione ricadde su Paolo Uccello probabilmente perché pochi anni prima egli aveva dato prova, in un’impresa di prestigio e di forte impatto pubblico quale era stata la frescatura del Monumento a Giovanni Acuto nella cattedrale di Santa Maria del Fiore (uno dei ‘manifesti’, in pittura, dell’umanesimo fiorentino), di rappresentare con la dignità degli antichi un celebrato uomo d’arme quale era stato il condottiero già al servizio della Repubblica, assimilabile a quei Niccolò da Tolentino o Micheletto da Cotignola che erano stati protagonisti onorati della battaglia di San Romano.
L’interpretazione dei soggetti illustrati nel ciclo non è univoca. Siamo soliti leggerli partendo dalla tavola di Londra, in cui Niccolò da Tolentino, alla testa delle milizie fiorentine, muove battaglia al fronte avverso, mentre sullo sfondo compaiono, oltre ad alcuni fanti alle prese con picche e balestre, due soldati che fuggono in lontananza, che potrebbero essere gli emissari inviati a Micheletto da Cotignola.
Il secondo elemento della serie, a noi più noto, è quello degli Uffizi, il solo a contenere, a mo’ di decorazione araldica dello scudo posto nell’angolo sinistro, la firma “PAULI UGIELI OPUS”. Esso celebra la sconfitta dell’esercito opposto ai fiorentini, con un condottiero (in genere identificato in Bernardino Ubaldini della Carda) che viene disarcionato da una lunga lancia orizzontale che fende altresì il dipinto a metà.
Il terzo pannello del trittico, oggi al Louvre, viene riconosciuto come il momento risolutivo per le sorti dello scontro, con l’irruzione del Cotignola e dei suoi armati, che avrebbe sbaragliato la compagine nemica.
Il tono di questi dipinti si accosta a quello dell’epic style della letteratura tardo medievale, dalle chansons de geste ai romanzi cavallereschi, che doveva essere ancor vivo sia nella cultura profana sia nella sensibilità visiva del primo Rinascimento. L’idea della zuffa è resa evidente dall’assiepamento dei militi, dall’intreccio delle lance, dall’apparato di armi e corazze (per lo più eseguite con lamine metalliche), dal variopinto assembramento di vessilli e stendardi, ma del sangue vi sono poche tracce.
Tutto appare più simile alla rappresentazione di un torneo, su cui domina un senso di metafisica ed astrazione. Uccello sembra perfino compiacersi dei modellini di legno di cui si è verosimilmente servito per studiare l’anatomia dei cavalli: non solo i movimenti o il moto imbizzarrito mantengono sempre un’evidenza statica, ma laddove gli animali sono crollati a terra, come si nota nel primissimo piano dell’episodio degli Uffizi, è come vedere i cavalli delle giostre, smontati dal telaio meccanico che li manteneva in piedi e abbandonati come inutili giochi. Lasciati a terra come reliquie della battaglia sono pure gli scudi, i pezzi di armature simili a congegni fuori uso, e allo stesso modo i soldati riversi, elementi di una natura morta divenuti altrimenti utili alla creazione della griglia prospettica, non meno del reticolo delle picche spezzate o dei riquadri di zolle erbose, direzionati verso un punto di vista centrale che giunge a delimitare una vera e propria scacchiera di direttrici geometriche. Epopea più ludica e intellettuale che realistica.
L’esprit de géométrie di Paolo si esprime, di nuovo con intenti di sublime astrazione, nella creazione di mazzocchi simili a prismi sfaccettati, issati sul capo di alcuni cavalieri, nella Battaglia degli Uffizi. Questo tipo di copricapo, tipico del primo Quattrocento fiorentino, è trasformato dal pittore in un poliedro virtuosamente scorciato, ovviamente inverosimile nel contesto di uno scontro reale, ma consono alle attitudini intellettuali della visione uccellesca. Sotto questo versante, un ponte collega l’artista a Piero della Francesca, che proprio nella Firenze prospettica capeggiata da maestri quali Paolo Uccello aveva svolto la propria formazione: coi loro protagonisti colti in atti e movimenti sospesi oltre la dimensione del tempo, l’intarsio colorato di forme cubiche, le due scene di battaglia nel ciclo della Vera Croce in San Francesco ad Arezzo non potrebbero esistere senza il precedente di quelle qui commentate.
Per come lo conosciamo oggi e per ciò che narra Giorgio Vasari, Paolo era soprattutto noto al tempo come frescante, meno come pittore su tavola, specialmente nel grande formato. Con le loro dimensioni ragguardevoli i tre episodî della zuffa di San Romano costituiscono pertanto un’eccezione significativa, trattandosi peraltro dell’esempio più alto, nel campo della pittura quattrocentesca su tavola, nell’illustrazione del tema della battaglia. Ma sono altresì il fondamento della fortuna moderna del loro autore. Soltanto nel clima delle Avanguardie si attua la straordinaria riscoperta di Paolo nella cultura non solo italiana del Novecento, grazie alle prese di posizione di intellettuali ed artisti, da Schwob a Picasso, da Soffici a Carrà e a De Chirico, sino all’omaggio ai cavalieri immobilizzati al suolo reso da alcuni impressionanti fotogrammi del film Lancelot du Lac (1974) di Robert Bresson.

Autore: Mauro Minardi

Fonte: www.finestresullarte.info, 24 mar 2022

ROMA. La Gloria di Sant’Ignazio di Andrea Pozzo adesso è fruibile online in Haltadefinizione.

È tra i “must see” per tutti i turisti, viaggiatori e appassionati che si trovano a Roma, un capolavoro che, come se fosse una malìa, costringe lo spettatore a stare con il naso in su.
È l’affresco realizzato da Andrea Pozzo per la Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma raffigurante la Gloria di Sant’Ignazio: un tripudio di vedute ardite, colori, illusioni prospettiche che fanno di quest’opera la quintessenza del barocco romano. Un capolavoro che, da oggi, è fruibile in ogni suo dettaglio anche in modalità virtuale grazie ad Haltadefinizione, tech company specializzata nella digitalizzazione di beni culturali che ha acquisito l’intera superficie affrescata della volta con tecnologia gigapixel su concessione del Fondo Edifici di Culto (Fec), proprietario del monumento.
La Gloria di Sant’Ignazio è solo l’ultimo dei dipinti digitalizzati e resi fruibili online da Haltadefinizione, dopo l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e l’intero ciclo di affreschi realizzati da Giotto all’interno della Cappella degli Scrovegni di Padova.
La digitalizzazione dell’affresco di Andrea Pozzo da parte di Haltadefinizione arriva nell’anno in cui ricorre il 500esimo anniversario dalla conversione di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, di cui fece parte anche Andra Pozzo. Sul sito di Haltadefinizione, è così possibile zoommare su ogni dettaglio dell’affresco, ingrandendolo fino a dieci volte.
“Nell’anno delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla conversione di Sant’Ignazio”, spiega Luca Ponzio, founder di Haltadefinizione, “ci uniamo alle commemorazioni offrendo la possibilità a tutti gli amanti dell’arte di scoprire l’affresco di Andrea Pozzo in formato digitale, e favorire, cosi`, la divulgazione e la conoscenza di questo capolavoro spettacolare”. Ecco a voi alcuni particolari della Gloria di Sant’Ignazio, davvero come non l’avete mai visto.

Guarda qui la “Gloria di Sant’Ignazio” di Andrea Pozzo in Haltadefinizione

Autore: Desirèe Maida

Fonte: www.artribune.com, 6 giugno 2021

FRANCOFORTE (D). 22mila opere dello Sta¨del Museum di Francoforte sono online e scaricabili gratuitamente.

Negli ultimi mesi abbiamo assistito a iniziative promosse da istituzioni culturali di tutto il mondo finalizzate alla promozione del patrimonio attraverso le piattaforme digitali, un modo per combattere il lockdown. Al di là dell’emergenza sanitaria, già da qualche anno i musei lavorano alla digitalizzazione delle collezioni, mettendole così a disposizione di studiosi, docenti e appassionati. Tra queste iniziative rientra quella recentemente lanciata dallo Sta¨del Museum di Francoforte: l’istituzione tedesca ha reso disponibili più di 22mila opere nella propria collezione per il download gratuito con la licenza Creative Commons CC BY-SA 4.0. Questa licenza consente a chiunque lo voglia di riprodurre e condividere le immagini, di utilizzarle ed elaborarle per qualsiasi scopo, a condizione che lo Städel Museum sia citato nei crediti.
st_presse_rembrandt_1639-331x420Tra le 22mila opere della collezione digitale dello Sta¨del Museum di cui è possibile effettuare il download gratuito ci sono il Ritratto di Simonetta Vespucci (1480 circa) di Sandro Botticelli, il Cane sdraiato sulla neve di Franz Marc (1911 circa), l’Uomo sdraiato sotto un albero in fiore (1903) di Paula Modersohn-Becker, l’Autoritratto appoggiato su un davanzale di pietra (1639) di Rembrandt, il Geografo di (1669) Jan Vermeer. Inoltre, i metadati di base delle opere di pubblico dominio, ad esempio i titoli e le tecniche, e le informazioni più approfondite come tag e fonti iconografiche, sono disponibili al pubblico tramite un’interfaccia OAI (Open Archives Initiative) e sotto la licenza CC0 1.0. Ciò permette il collegamento incrociato con altri database di immagini e piattaforme di ricerca.
“Una parte sostanziale della collezione dello Städel Museum è ora liberamente accessibile tramite la licenza Creative Commons e l’interfaccia OAI”, dichiara il direttore del museo Philipp Demandt. “Ciò rappresenta un passo importante verso la più ampia fruizione dei beni culturali e il dinamico scambio internazionale di conoscenze. Rendendo le opere d’arte dello Städel scaricabili attraverso la nostra collezione digitale, abbiamo aperto la strada a una ricerca su vasta scala e approfondita di 700 anni di arte”.

st_presse_vermeer_1669-377x420Autore: Desirée Maida

Info: www.staedelmuseum.de

Fonte: www.artribune.com, 27 set 2020

ROMA. Chiara Ferragni a Palazzo Barberini e scoppia il caos.

È la Galleria Nazionale d’Arte Antica Palazzo Barberini Corsini in Roma a dare notizia ufficiale della visita della popolare imprenditrice, avvenuta ieri, sui propri canali Instagram e Facebook. Si legge “Si scateneranno polemiche? Lei è Chiara Ferragni e ha scelto di visitare Palazzo Barberini per scoprire uno dei più importanti musei romani. E voi quando verrete a scoprire le nostre meraviglie?”.
3Le foto della nota influencer, immortalata accanto alla Giuditta e Oloferne di Caravaggio e all’Amor Sacro e Amor Profano di Giovanni Baglione, sono state postate anche sul suo canale Instagram che conta ben venti milioni di follower. Numerosi e immediati i commenti degli utenti tra cui: «Marchetta pubblicitaria» ; «Ringrazio gli Uffizi, i Musei Vaticani e le gallerie Barberini Corsini per avermi fatto conoscere Chiara Ferragni, non avevo idea di chi fosse»; « Triste pensare che le persone debbano essere stimolate in questo modo» laddove altri al contrario hanno replicato positivamente «La sua visita porterà sicuramente nuovi visitatori alle Gallerie. Mi pare un fatto molto positivo»; «Ritengo bellissimo vedere la Ferragni provare interesse per uno dei Musei più belli di Roma».
Già il “caso mediatico” era nato a Luglio con un selfie che ritraeva l’influencer agli Uffizi di Firenze accanto alla Venere di Botticelli e se allora il Direttore del Museo Eike Schmidt aveva manifestato tutta la sua verve “giovanilista” dichiarando una «visione democratica» dell’arte dall’altro lato c’era chi, tra gli studiosi, non ne aveva condiviso la scelta come Tommaso Montanari il quale criticandone “l’operazione” sosteneva come la Primavera di Botticelli fosse diventata una “testimonial alla Ferragni” e non l’inverso.
FerragniSarcastico e pungente stavolta è stato l’intervento di Daniele Radini Tedeschi, uno tra gli autorevoli studiosi del Caravaggio, che dal suo canale instagram, seguito da oltre trentaseimila follower ha vivacemente commentato l’accaduto ponendo l’attenzione sulla necessità di una emancipazione dei Musei, specie se pubblici e statali, da mode, social, scelte di marketing o testimonial e scatenando così una querelle di interazioni negative degli utenti verso il Museo.
E siamo solo all’inizio.