La funzionalità delle Soprintendenze non è un discorso di bassa cucina. L’art. 9 della nostra insidiatissima Costituzione, prescrivendo che la Repubblica “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”, rinvia alle norme e strutture di tutela in vigore quando la Costituzione fu approvata: rispettivamente, le leggi Bottai del 1939 e l’organizzazione delle soprintendenze territoriali. Lo conferma la più ampia e recente trattazione in proposito del bel libro di Francesco Saverio Marini Lo statuto costituzionale dei beni culturali (Giuffrè, 2002), dove si dimostra che l’art. 9 sancisce una visione dinamica della tutela come pubblico intervento sul patrimonio (anche nel senso della fruizione e della valorizzazione); funzioni da esercitarsi prima di tutto dalle Soprintendenze.
In altri termini, la Costituzione può dire quel che dice perché parte dal presupposto che esistano e funzionino le strutture di tutela che ne consentono la piena attuazione; chi fa decadere o degradare quelle strutture, offende e viola la Costituzione. Questa di Urbani sarà la seconda riforma (dopo quella Melandri) a cui l’amministrazione della tutela viene assoggettata in pochi anni: insomma, si insiste sulle modifiche strutturali anziché assicurare un più sano turn over. A ogni riforma, la struttura del Ministero si complica e si burocratizza, in chiave sempre più verticistica e gerarchica.
Fino a pochi anni fa, l’organigramma era semplicissimo: dal ministro dipendevano quattro direzioni generali, e da queste la rete delle soprintendenze territoriali. Punto e basta. La riforma Melandri introdusse un doppio filtro, istituendo un Segretario Generale a capo dei direttori generali (portati a otto), e 17 soprintendenti regionali; inoltre, creò quattro Soprintendenze ai poli museali, pessima invenzione che staccava i musei dal territorio a Roma, Venezia, Firenze, Napoli.
La riforma Urbani abolisce la figura del Segretario Generale, ma per sostituirla con quattro “Dipartimenti”, da cui dipendono non solo le direzioni generali (portate a dieci), ma anche le direzioni regionali (già soprintendenze regionali), gerarchicamente sovraordinate alle rispettive soprintendenze territoriali. Come ha osservato il Consiglio di Stato, tale struttura “a piramide” ostacola le procedure, in particolare quelle soggette a scadenze perentorie (come il silenzio-assenso o i diritti di prelazione dei comuni nell’acquisto di immobili posti in vendita dallo Stato).
Non è difficile capire che la tutela è tanto più efficace quanto più legata al territorio (uno scavo a Verona si segue meglio da Verona che da Venezia o da Roma). Invece, mentre il numero delle soprintendenze territoriali va diminuendo, nelle ultime due riforme le figure “di vertice” sono cresciute da 4 a 9 (riforma Melandri) a 15 (riforma Urbani), senza contare i 17 soprintendenti (ora dirigenti) regionali. Il prezzo è alto: data la diminuzione dei quadri dirigenziali di seconda fascia, varie soprintendenze territoriali resteranno scoperte o verranno accorpate, attribuendole a soprintendenti con profilo scientifico non pertinente.
Per di più scompare, nell’attuale bozza di regolamento, ogni menzione della qualifica tecnico-scientifica inerente ai ruoli, il che apre la strada a manager amministrativi e politici, che senza nulla sapere di storia dell’arte o di archeologia dovranno prendere decisioni vitali per il nostro patrimonio. In altri termini, si allenta la “presa” sul territorio e il valore della ricerca a vantaggio di una visione verticistica e burocratica, allontanando i soprintendenti territoriali dal momento decisionale.
Questa defunzionalizzazione dell’amministrazione potrebbe essere l’anticamera di un possibile scenario finale di smantellamento de facto e spartizione, con “conferimento” a fondazioni di diritto privato dei bocconi più ambiti, e devoluzione del resto alle regioni. Magari, come ha dichiarato il sottosegretario Bono, riducendo le Soprintendenze da istituti di ricerca a “sportelli di riferimento dei cittadini per licenze e modernizzazioni” (Gazzetta di Parma, 26 marzo).
A una prospettiva tanto nefasta è ancora possibile fare argine auspicando un modello alternativo, che possa essere sperimentato pur mantenendo la struttura di base della riforma Urbani. In primo luogo, si può ridurre la distanza gerarchica fra le troppe istanze che si frappongono tra tutela del territorio e decisioni di vertice disponendo che il Direttore Regionale sia un primus inter pares , a rotazione, tra i Soprintendenti di settore di quella Regione; e che, analogamente, il Direttore del Dipartimento beni culturali e paesaggistici sia un primus inter pares, a rotazione, tra i Direttori Generali di quel Dipartimento. Questa gestione collegiale dovrebbe fondarsi sul principio della responsabilità, della competenza e del contatto con il territorio, e comportare specifici profili tecnico-scientifici e non astrattamente manageriali. Non è differenza da poco: solo un funzionario che s’intenda di storia dell’arte o di archeologia potrà opporsi con cognizione di causa alle alienazioni facili, mentre non lo farà un manager senza competenza specifica, e tanto più se di nomina politica.
Ma il rilancio della pubblica amministrazione del settore richiede un progetto coerente e organico, che sappia ridare fiato ai funzionari, da troppo tempo frustrati e umiliati. La direzione è chiara: concepire le Soprintendenze come enti di ricerca e di tutela, dando loro responsabilità e fiducia anziché sottoporle a meccanismi di approvazione lenti, tortuosi e inefficaci; rimotivare i funzionari di ogni grado mediante appositi corsi di formazione, indirizzati sia a storia dell’arte, museografia, ecc., sia a tecniche di management; rendere il sistema “permeabile”, rispetto all’esterno, incoraggiando i contratti di docenza del personale di musei e soprintendenze nelle università, ma anche favorendo l’affidamento a docenti universitari (anche stranieri) di incarichi temporanei in Sovrintendenze e musei; infine, procedere immediatamente a nuove assunzioni di personale di garantita qualità.
Bisognerebbe insomma, e ne sono tutti i presupposti, puntare gradualmente verso un modello di Soprintendenza territoriale dotata di personalità giuridica ed autonomia scientifica, amministrativa, finanziaria e contabile, dando poi autonomia e responsabilità di gestione, all’interno delle varie soprintendenze, ai musei che possano contare su significativi introiti propri. Solo così si potrebbe stimolare efficacemente l’iniziativa dei singoli direttori di museo e soprintendenti.
Una sperimentazione come questa avrebbe il suo naturale punto di partenza nelle attuali Soprintendenze “autonome”, quelle ai Poli Museali e le archeologiche di Pompei e di Roma. Le soprintendenze ai Poli museali andrebbero mutate, restituendo i musei al loro territorio, in soprintendenze urbane delle rispettive città; di quelle archeologiche andrebbe confermata l’autonomia, riaffermando il principio irrinunciabile che a reggerle dev’essere, appunto, un archeologo. Queste sei soprintendenze dovrebbero avere un modello unico di gestione (il modello bicefalo di Pompei, dove il soprintendente divide il potere con un manager amministrativo, non può funzionare). Dopo aver sperimentato questa forma di autonomia nelle sei Soprintendenze citate, essa dovrebbe essere messa a punto ed estesa gradualmente a tutte le soprintendenze territoriali. Si riconoscerebbe così apertamente l’ovvio principio che la programmazione conoscitiva della tutela non può essere efficace se disgiunta dall’azione amministrativa e dalla gestione dei fondi.
Il modello può essere la crescente autonomia sperimentata con successo nelle università. Anche le università, come le soprintendenze, sono governate da rettori che possono essere archeologi, medici, fisici senza alcuna formazione manageriale, eppure amministrano, col supporto delle strutture amministrative ma controllando le decisioni strategiche (per esempio sulla ricerca), complesse strutture e bilanci spesso assai più cospicui di quelli delle soprintendenze. Naturalmente, si dovrebbero attivare meccanismi di controllo della gestione e di valutazione della produttività e dei risultati, che consentano di verificare e premiare l’efficacia e l’efficienza delle azioni amministrative e di tutela, nonché di valutare individualmente i singoli responsabili, senza dimenticare che, pur promuovendo l’affluenza di pubblico, i musei e le strutture di tutela sono in tutto il mondo servizi e non enti for profit.
E’ lecito nutrire ancora qualche speranza che sia questa la strada, e non la moltiplicazione di direzioni generali e di prebende?
Autore: Salvatore Settis
Fonte:La Repubblica