Quando i Musei fanno i conti con le folle

Come gestire le opere d’arte quando i soldi sono sempre più abbondanti, e come presentarle quando la cultura dei visitatori si fa più scarsa? E gli allestimenti si vogliono protagonisti come gli " eventi" ; e quindi i contenitori e le trovate e gli addobbi prevaricano su tutto; e col pretesto delle mode in corso si addensano gli intrecci fra i musei e le manifestazioni e il mercato e la critica…Allora, si discute: quali materiali e quali colori sulle pareti, dietro i dipinti dei vari secoli? Pietre o intonaci o stoffe, bianche o rosse o verdi o gialle o blu? Con quale luce o quali tecniche illuminarli? Ma soprattutto,con quale criterio sistemare, l’ordinamento? Storico e geografico, . nazionale, decorativo, ideologico, tematico, provocatore-scandalistico?I visitatori sono sempre più numerosi; e anche più passivi, circa i must «da non perdere». Vale sempre l’esperienza del Mauritshuis, all’Aia: un museo piccolo, con poche stanze, ma pochissimi durante la mostra di Vermeer facevano qualche passo per vedere anche i Rembrandt; e reciprocamente, quando l’«evento» era Rembrandt, molti venivano di lontano con prenotazioni e spese, ma non percorrevano queidueotre metri in più per guardare anche i Vermeer.Ora si potrebbe confrontare l’esperienza di Basilea.Quasi nessuno al Kunstmuseum, pieno di magnifici Léger e Giacometti e Kokoschka e Kirchner. E ritratti mirabili di Picasso e Schiele. Una piccola folla invece alla nuova Fondation Beyeler, dove i classici del Novecento sono i medesimi, e arrivano addirittura a Warhol. (Conle professoresse che spiegano ai giovani Elvis Presley e Jackie Kennedy, in quanto icone ormai antiche).Il padiglione di Renzo Piano è bellissimo: come già era felice, anche là in una periferia verde, la sua Fondazione Menil a Hou-ston. Qui i blocchetti di granito rosso suggeriscono un effetto-Missoni all’esterno, sotto un tetto molto techno. Mentre le pareti bianche delle sale appaiono eleganti e nobili, sopra il parquet chiaro, perché i quadri sono appesi isolati, molto lontani l’uno dall’altro. (Tutto l’opposto della Collezione Bùhrie, a Zurigo, che ha ancora la civetteria di tenere sette o otto Van Gogh su una sola paretina, in una saletta di una villa vecchiotta. Ma la paretina vicina ha altrettanti Cézanne; e così via).Il signor Beyeler è un grande gallerista, da oltre mezzo secolo. Dunque ha tenuto opere splendide e poetiche, soprattutto di Picasso e Matisse e Rousseau e Braque. Ma in ogni sala ha disposto delle stupende opere lignee africane e oceani- queste pareti così bianche e che: per non dimenticare che le smisurate sono una sfida per i avanguardie storiche col gusto conformisti dello spray selvag-dei " primitivismi" le copiavano così come gli scultori romani rifacevano gli originali greci; e come le transavanguardie " anni 70" riproducevano i disegni dei bambini, recuperando la cotta surrealista per gli schizzi dei pazzi. Ma c’è anche una morale: ecco una creazione novecente-sca di ricchezza già " virtuale" , quando i galleristi valorizzano con quotazioni altissime i manufatti che in epoche " coloniali" venivano portati via spendendo zero.Tutto l’ambiente è insieme rigido e soft: color latte, con divanoni gradevoli e " chicche" tipo riflessi da uno stagno (fuori) tipo quello di Monet a Giverny, qui ammiccanti a un pannello -ne di ninfee, di Monet stesso. Ma con un saluto, intanto, oltre lo stagno, ai profilini di sasso su un pendio d’erba messi da Gae Aulenti sotto il castello di Emilio Pucci in Toscana. E i Léger e i Mirò e i Bacon f sono solo di qualità extra:non come quelle antologiche dove il livello medio abbassa pericolosamente la valutazio-ne. Scoppiala felicità dei grandi metraggi, quando ai " pop" degli anni Sessanta è chiaro che i musei (e non più i privati) li comprano subito. Ma queste pareti così bianche e smisurate sono una sfida per i conformisti dello spray selvaggio: ai graffiti metropolitani si addice di più una facciata appena restaurata di qualche Sangallo, oppure una galleria nuova e moderna di Piano? («Siamo writers o vandali?» si chiedereb be il sommo Totò). Qui, comunque, si tengono sottovetro i Mondrian dove c’è molto bianco, e i Klee su un sacco sfrangiabile. I Kandinskij e Picasso molto colorati sono invece sotto sorveglianza di guardiani attentissimi. Come gli Ernst e i Rothko e i Dubuffet.Mal’attuale buona mostra di Warhol è addirittura commovente. I multipli degli incidenti colorati e le Gioconde sbiancate e le Ultime Cene capovolte e le variazioni su falci e martelli coi marchi industriali di fabbricari-sultano trovate epocali come gli attigui " découpages" di Matisse. E davanti alle confezioni di detersivi da supermarket si commemorano ancora i bei tempi dell’arte fai-da-te con gli scato-loni. Però di fronte alle famose lattine di zuppe si aggrottano pensose molto ciglia giovani: quei brodi sembrano ormai difficili da capire.Andy li ritrae senza irriverenze: non è arrivato fino alla contestazione del fast food globale. Altro che la moda di Seattle, in quel Village. Tutta assolutamente all’opposto, la Collezione Bùhrie può sembrare una sfida provocatoria, nell’ostentata intimità casalinga della villetta borghese in un sobborgo residenziale sul lago di Zurigo. Stanzette minuscole ove si faticherebbe a pranzare in dodici; buccia d’arancia in cementite modestissima " anni Cinquanta" alle pareti; parquet economico.Ma subito dietro il portiere, un ritratto della moglie di Rembrandt; su per la scaletta, file di Delacroix e Courbet strabilianti. (Di Delacroix, perfino il «Tasso all’Ospedale di Sant’Anna», già appartenuto al facoltoso turco-parigino Khalil Bey). E appena affacciandosi, qua un " pieno" di Canaletto, Guardi, Goya, Tiepolo, Greco, Bernardo Strozzi, Tintoretto. Là, quattro pareti di Greuze, Ingres, Corot, Fragonard, Degas. Con fiordi bei mobili, ceramiche, sculture ligneeIl signor Buehrle era un ricchissimo industriale delle armi, morto nel 1956; e la figlia erede fu sposa del celebre pianista Geza Anda, specialista di Mozart e Liszt.Ma la richiesta di prestiti d’opere era talmente intensa che dopo una tournée della quadreria in Germania e Inghilterra e Stati Uniti e Giappone e Canada fu deciso di non concederle più. (Una eccezione epocale: «L’Italiana» di Picasso a Palazzo Grassi, tre anni fa). Mai la minima pubblicità. Apertura di poche ore pomeridiane, ogni settimana. E dunque, una tranquillità totale per guardare sette Manet in una stanza da letto, con ninfee di Monet e ballerine di Degas, un piccolo Rubens sopra una stufa di ceramica, una sensazionale «Messalina» di Tou-louse-Lautrec, i parecchi Gau-guin e Renoir e Seurat e Fantin-Latour qua e là. Anche un " office" femminile: Berthe Morisote Mary Cassati. Con scelte paragonabili alla raccolta Cour-tauid, ora sistemata in grande splendore a Londra.Tutto molto pieno, su queste cementiti limone pallido o rosa cipria o cenere spenta. I Matisse e i Braque sono su un pianerottolo, evidentemente per non spostare i Ruysdael e Saenredam e gli Hais che affollano un salottino con un piano a mezza coda e due poltroncine, su un parquet verniciato a quadratini verdi color cedrata.E anche i Modigliani e i Chagall e i Rouault ricolmano una rampa di scale. Fra le gemme: un vecchio giardiniere di Cézanne, una famigliola a pranzo di Monet, e due Manet sensazionali. Un parapetto diagonale come un ponte giapponese; e un volo basso di rondini intorno agli uccelli sui cappellini di due signore sedute su un prato. (Ma le sculture lignee qui sono solo dell’Alto Medioevo e del Rinascimento tedesco).E gli italiani?Può diventare interessante – fuor idalle attuali ristrutturazioni-spettacolo a Londra — guardare come sono appesi i nostri cari nelle illustri raccolte di Oxford e Cambridge. Là i facoltosi e nobili ex-alunni donavano parte dei tesori d’arte acquistati nel Grand Tour: dunque, non solo i Domenichino ex-Giustiniani e i Pietro da Cortona ex-Sacchetti e i Poussin o Lorrain già di casa Colonna, e i Tiziano già di Cristina di Svezia: una Lucrezia e una Venere. Anche i bei Cézanne lasciati da Lord Keynes al Fitzwilliam di Cambridge. E all’Ash-molean di Oxford, a pochi mesi dalla morte del grande studioso Francis Haskell, ecco già un altro Tiziano (un ritratto di Giacomo Doria) donato dagli amici in sua memoria. E acquistato evidentemente a un’asta di adesso: in un battibaleno.Scatta dunque il solito ingenuo tormentone: come mai nei nostri musei migliori (anche lombardi e piemontesi e veneti) generalmente i cartellini delle munificenze si arrestano ai primi del Novecento? E che cosa avranno donato, gli amici, in memoria di Cesare Brandi o Federico Zeri? E nelle più presti giose università secolari, con quali munificenze erudite e tangibili si onorarono concretamente i più venerati Rettori Magnifici e i più ammirati luminari «honoris causa»?Dietro i colonnati ionici e corinzi dell’età vittoriana, dentro l’Ashmolean e il Fitzwilliam si accumulano — ristrutturati — oltre due secoli eclettici di lasciti eterogenei spesso allucinanti:bronzi e marmi greci e romani e indiani e persiani, argenterie e maioliche, armi e miniature e monete, codici e cineserie e fondi-oro. Ma considerando la pittura italiana, le scuole dell’arredo sono differenti, per gli stessi artisti.A Cambridge, sobrie stoffe in tinte unite non troppo chiare: verdone per gli italiani, tabacco per gli olandesi e fiamminghi, rosso pompeiano per i ritratti aristocratici inglesi, giallo spento per le composizioni di fiori. Quindi, un effetto ottimale per i Pinturicchio e i Veronese e i Palma e i Bassano e i Carracci e i Quercino e i Reni e i Dolci e i Rosa e i Belletto. Come per i Rubens, gli Hais, i Van Dyck, gli Hogarth, i Raeburn, i Wright ofDerby. Ma con un reticolo metallico cangiante dietro i fondi-oro toscani. Un po’ da vetrinistica.A Oxford usano invece i damaschi di colori sgargianti e disegni lucidissimi — come nelle sale più sfacciate della National Gallery londinese — perfino dietro il misterioso «Incendio nella foresta» di Piero di Cosimo, con tutti quegli animali enigmatici e assorti. Quanti aggressivi scarlatti e turchesi e lavande e resede ghiacciate e rosa-confetto da bordello della Belle Époque, fra Ghirlandaio e Orcagna e Giorgione e Bellini e Bronzino e Crivelli e Tintoretto e Lanfranco e i post-impressio-nisti fra cui abbonda Pissarro. Oltre agi i scavi di Arthur Evans a Creta, qui le chicche sono forse i ritratti russi: un Andrej Belyi di Leon Bakst, un Riike di Pasternak padre, una Caterina II di Alexandr Benois. Ma la gemma rimane la «Caccia in foresta» di Paolo Uccello, assolutamente il dipinto più elegante che si conosca: tutti illuminatiin un buio notturno, e tutti stanno gridando con espressioni interessantissime, coi loro berrettini e le giacche rosse tra cani araldici fantastici e chic come gli animali espressivi di Piero di Cosimo.Al piano di sopra, violenti e vistosi paonazzi da arredo kitsch per i peggiori preraffaelliti: con monache sante fra gigli e piccine derelitte nel fango: e ben gli sta?Ma proprio nella medesima Oxford, l’illustre collezione dei lasciti al Christ Church College è stata sistemata in un ampio garage apposito, tutto severamente nudo e bianco, da elettrauto minimalista. In fondo, la celeberrima «Macelleria» d’Annibale Carracci, e una sua cospicua «Madonna di Bologna». Inoltre, dieci Sibille e un Centauro di Filippino Lippi, tré Lorenzo Lotto fra cui una ragguardevole «Cena in Emmaus», Calvari e Mosè e Nascite della Vergine e Continenze di Scipione e San Lorenzi (di Giovanni di Paolo, Salvator Rosa, Giaquinto, Van Dyck, Tintoretto) con un contorno di Bambini Vispi e di Tebaidi.Qui si studiarono John Ru-skin, Lewis Carrol, W.H. Au-den, quando la «Macelleria» era ancora appesa nelle cucine del collegio.Ma chissà se le prossime mode porteranno qui i broccati abbaglianti del Museo a pochi passi, sbiancando severamente là dentro le pareti oggi abbigliatissime? A teatro lo si vede ogni giorno: le Aide si svolgono ormai in nudi obitori, mentre gli addobbi delle Cleopatre e dei Radames passano ad agghindare le mostre spettacolo…E dopo guardando poi nel castello di Windsor tutti gli stucchi e gli ori sette-ottocenteschi rifatti adesso nuovi e dunque ‘falsi’ dopo l’incendio di qualche anno fa, si potrebbe forse riflettere: sarà più opportuno ‘ripristinare tutto’ (come anche nelle grandi residenze russe Pavlosk e Petrhof, presso San Pietroburgo), o conservare gli sfregi delle bombe, come nel palazzo Reale di Milano? Due scuole, forse non solo di restauro: chi vince la guerra cancella le ferite, anche se l’assedio di Leningrado fu epico. Chi perde le fa vedere ai nipotini.

Autore: Alberto Arbasino

Fonte:La Repubblica