«Bologna è la città di Morandi, il più grande pittore della natura morta del XX secolo. E quindi ci è sembrato quasi naturale organizzare una mostra che ripercorresse le fortune d’un genere a torto considerato minore e che potesse essere considerata un omaggio a questo artista». Così Peter Weiermair drettore tedesco della Galleria d’Arte Moderna di Bologna preenta la mostra «La natura della natura morta». Dal primo dicembre al primo aprile la manifestazione propone, attraverso 140 quadri e quasi altrettante istantanee, un doppio percorso nella pittura e nella fotografia, inseguendo analogie e contrapposizioni su uno stesso tema.«Per molto tempo – spiega Weiermair – la natura morta quasi non piaceva ai pittori, sembrava più importante fare paesaggi o ritratti. Ci siamo chiesti perché non fare un’analisi di questo soggetto, non in tutta la storia dell’arte, ma dall’inizio della modernità. Partiamo così da Manet e cerchiamo opere chiave, che possano illustrare il cambiamento del modo di pensare o di vedere la natura morta». In ordina cronologico la sezione «Da Manet ai giornki nostri» presenta l’alternarsi di sperimentazioni stilistiche e di riprese della tradizione. «Componenti convenzionali come fiori, frutti, stoviglie o strumenti musicali – dice ancora Weiermair – offrono agli artisti spunti inesauribili per la sperimentazione: si va dalle indagini ottiche di Manet agli scardinamenti prospettici di Cézanne, dalla vorticosità spaziale dei Futuristi alla disarticolazione percettiva dei cubisti, dall’esuberanza cromatica di Jawlensky alle classiche cadenze di Morandi, alla matericità di Fautrier».L’attenzione e la sensibilità degli artisti intercettano nuovi oggetti, mode e abitudini: vasi e ventagli orientali sono frequenti alla fine dell’Ottocento, più in là troveremo piante grasse, frutti e cibi esotici, giocattoli e soprattutto strumenti meccanici e prodotti industriali, mentre nella pop art saranno protagonisti i fedeli ritratti di merci di consumo come la Coca-Cola o le zuppe Campbell. La pittura ha spesso influenzato la fotografia, ma talora è successo l’inverso, così la sezione «Da Fox Talbot ai nostri giorni» mette in evidenza i reciproci influssi. Composta da 140 vintages, stampe originali d’epoca provenienti da importanti collezioni pubbliche e private, documenta l’evoluzione della fotografia nell’arco di 150 anni. «Fin dagli inizi – dice ancora Weiermair – il desiderio dei neofiti di questo strumento è stato di vedere considerato il proprio lavoro in tutto e per tutto un’arte». Così agli inizi i fotografi cercano in qualche modo di «rifare» la pittura più o meno classica: il repertorio degli oggetti ritratti – composto per lo più da frutta, vasi, uova, bicchieri e teschi – diventa protagonista anche sulle prime immagini al collodio o all’albumina.«Ma durante il percorso evolutivo della fotografia si assiste a un ribaltamento di ruoli nei confronti dell’arte tradizionale: da una condizione di subordinazione come strumento tecnicamente utile per virtuosismi pittorici a medium del fare artistico contemporaneo». La convergenza tra arte e fotografia si consolida dopo il 1915, tanto che Man Ray afferma «ciò che non posso dipingere fotografo e ciò che non posso fotografare dipingo». Il match tra pittura e fotografia vede sul fronte dell’immagine le opere di grandi autori dell’Ottocento come William Henry Fox Talbot, Adolphe Braun, Eugène Cuvelier. Si passa poi ai maestri del «pittorialismo» come Heinrich Kuhn e Adolf De Mayer, quindi a big del Surrealismo come Herbert List e Madame Yevonde. Non mancano esponenti della Nuova Oggettività come Piet Zwart o Emmanuel Sougez, e attraverso Bayer, Reichmann, Man Ray si arriva ai protagonisti del dopoguerra da Wols a Warhol, fino a Hockney e Mapplethorne. «Questa mostra – conclude Weiermair – è la prima parte di una trilogia, abbiamo infatti in cantiere due altre grandi esposizioni sul tema del corpo e sul ritratto-autoritratto. Anche in questi casi cammineremo sulle due gambe della pittura e della fotografia».
Autore: Rocco Moliterni
Fonte:La Stampa