Quanti saprebbero dire quale sia il regime fiscale previsto nel caso in cui un’azienda decida di acquistare opere d’arte per poi donarle ad un museo? E quanti sanno come viene considerata dal fisco la sponsorizzazione di una mostra? Probabilmente in pochi, nonostante il fatto che in Italia i finanziamenti ai progetti culturali siano interamente deducibili dalle tasse poiché assimilati a spese di promozione commerciale. Le leggi tributarie lo consentono, la normativa giuridica esiste, ma poche imprese ne sono a conoscenza ed ancor meno usufruiscono degli incentivi fiscali disponibili.
Sono queste solo alcune delle riflessioni con le quali si è concluso il “Forum Impresa e Cultura” che si è tenuto a Napoli lo scorso 16 novembre. Focalizzato sul ruolo giocato dal fisco nel creare opportunità di collaborazione e di partnership tra impresa e cultura, quest’anno il Forum ha voluto comprendere se alla crescente sensibilità delle imprese alle tematiche di responsabilità sociale corrisponde un’analoga sensibilità in ambito politico e, in particolare, nella disciplina fiscale.
Sensazione diffusa infatti è che in Italia gli imprenditori dimostrino un discreto interesse nei confronti delle nuove opportunità offerte dagli investimenti culturali, ma che gli ostacoli burocratici e fiscali siano ancora tali da rendere qualsiasi intervento in questo ambito una sorta di costoso lusso da filantropo. L’analisi dei punti di debolezza e di forza della normativa fiscale italiana messa a confronto con le legislazioni attualmente vigenti nei principali paesi industrializzati, ha rivelato un quadro decisamente confortante: in Italia come all’estero, l’investimento in cultura sta diventando un tema sempre più sentito dalle imprese e il mondo della cultura dimostra di temere meno che in passato una loro eccessiva ingerenza nel mondo della cultura.
La produzione e la diffusione culturale sono una fonte di sviluppo per la collettività a prescindere da chi la promuova e la sostenga finanziariamente. La conseguenza è che, negli ultimi anni, diversi Paesi hanno introdotto radicali cambiamenti nel proprio ordinamento con il fine di incentivare e disciplinare gli interventi delle imprese nel mondo della cultura e dell’arte.
L’idea di base che innerva tutte le normative internazionali è che un’impresa che sponsorizza un evento non stia semplicemente contribuendo ad un’iniziativa socialmente meritoria, ma stia anche perseguendo obiettivi commerciali di promozione della propria immagine o dei propri prodotti.
Questo qualifica le spese sostenute come pubblicitarie e le rende interamente deducibili dal reddito imponibile, così che l’impresa si trova a poter scegliere liberamente se investire in promozione comprando spazi pubblicitari o finanziando il recupero di un’opera d’arte, sapendo comunque che in entrambi i casi avrà diritto allo stesso incentivo fiscale.
Si tratta di un significativo passo avanti, perché costringe a considerare che l’impresa non è solo un mecenate di iniziative genericamente utili alla società, ma un’organizzazione che in funzione delle proprie strategie vede nella cultura un’opportunità di investimento vantaggiosa. Se quest’atteggiamento positivo nei confronti della sponsorizzazione culturale è ormai decisamente prevalente nei paesi anglosassoni, così come in Francia ed in Germania, rimangono comunque Paesi come la Svezia o la Grecia nei quali la gestione della cultura è considerata una prerogativa essenzialmente pubblica. In Italia invece la sponsorizzazione viene considerata dall’amministrazione tributaria come una spesa di pubblicità e come tale deducibile integralmente nell’esercizio in corso e nei quattro anni successivi (Art. 74, 2° co., Tuir – Testo Unico delle Imposte sui Redditi – Dpr 22-12-1986, n. 917). L’unica condizione richiesta per accedere alla deducibilità è che esista un accordo con il quale entrambe le parti assumono impegni reciproci: lo sponsor finanzia e l’ente culturale si impegna a metterne in evidenza il nome nelle forme pattuite. A tanta semplicità si aggiunge anche il cosiddetto “diritto di interpello” (ovvero la facoltà di richiedere un parere tecnico alle autorità fiscali prima di aver effettivamente finanziato il progetto culturale per il quale, inoltre, vale la regola del silenzio-assenso in caso di mancata risposta.
Il legislatore italiano ha così voluto dare un segnale forte per promuovere l’investimento culturale d’impresa, rendendolo pienamente deducibile e garantendo la propria collaborazione laddove possano sorgere dubbi sulla corretta interpretazione delle norme. Analogo trattamento fiscale vale nel caso in cui un’impresa scelga di perseguire obiettivi di responsabilità sociale in qualità di semplice mecenate. Con l’introduzione della legge 342/2000, entrata in vigore dal 27 luglio 2001 (Art. 38, legge 21 novembre 2000, n. 342), si consente alle imprese (individuali e non) di ottenere la piena deducibilità fiscale, senza alcun tetto massimo, per tutte le erogazioni liberali in denaro a favore dello Stato e delle istituzioni pubbliche, di fondazioni e di associazioni legalmente riconosciute, volte alla realizzazione di progetti nei settori dei beni culturali e dello spettacolo. Le donazioni non possono essere soggette a condizioni e i versamenti non fanno sorgere nel beneficiario alcun obbligo di controprestazione. Le condizioni richieste sono che i donatori siano titolari di reddito d’impresa, che i beneficiari appartengano ad una lista di soggetti accreditati (a accomunati dal non perseguimento di finalità lucrative) e che i finanziamenti siano in denaro. Pur con talune imperfezioni e complessità procedurali, la disciplina attualmente vigente rende dunque analogo per le imprese il trattamento fiscale della donazione e della sponsorizzazione. La situazione italiana diventa così molto simile alle normative di quei Paesi caratterizzati da una lunga e consolidata tradizione di coinvolgimento delle imprese nella società civile. Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Germania, solo per citarne alcuni, tendono ormai a trattare indifferentemente i finanziamenti delle imprese nel mondo dell’arte e della cultura, concedendo sgravi fiscali e sovvenzionando alcune forme particolari di intervento.
L’esperienza sembra dunque aver rassicurato le autorità tributarie del fatto che gli incentivi fiscali alla cultura non danno adito a drammatiche cadute di gettito per l’Erario o a particolari pratiche fraudolente. Cadono così molti dei timori che costringevano i legislatori a fissare dei rigidi meccanismi di controllo e dei requisiti così invasivi sulle procedure e sulle modalità organizzative da risultare più disincentivanti che utili. Tali pregiudizi in realtà permangono nel momento in cui si passa dalle donazioni d’impresa al fenomeno del mecenatismo diffuso, ovvero quello realizzato dai privati cittadini. In questo caso, infatti, si teme che le persone, approfittando della piena deducibilità concessa alle donazioni, per eludere il fisco camuffino le proprie spese personali sotto forma di elargizioni volte allo sviluppo della collettività. Si registrano così un po’ ovunque normative sulla donazione decisamente meno permissive rispetto a quelle attualmente vigenti per le imprese. In Italia, per esempio, si ammette solo una parziale deducibilità sulle somme versate (19 %) e vengono previsti dei tetti massimi agli importi donabili, mentre in Portogallo si può dedurre il 25 % della donazione, ma solo fino al raggiungimento del 15 % del reddito imponibile. Se è vero che, alla prova dei fatti, i timori e i pregiudizi relativi alle donazioni dei privati non sono ingiustificati, è anche vero che dando uno sguardo all’estero si possono osservare meccanismi che riescono a trovare un buon compromesso tra il desiderio di incentivare il fenomeno della donazione socialmente utile e quello di evitare fenomeni di elusione fiscale.
Il “Gift Aid”, la nuova normativa inglese in tema di donazioni valida a partire da aprile 2000, consente di dedurre l’intero ammontare delle donazioni dal reddito imponibile (pur con alcuni limiti quantitativi) purché i beneficiari appartengano ad una particolare categoria di organizzazioni accreditate, le “charities”. Una modalità alternativa a quella inglese è quella attualmente vigente in Portogallo e basata sull’accreditamento preventivo dei progetti culturali da parte del Ministero della Cultura e del Tesoro. Certificando la bontà del progetto prima che venga effettivamente finanziato, il legislatore si mette così al riparo da possibili abusi, garantendo allo stesso tempo sgravi fiscali per i donatori. L’evoluzione del panorama internazionale, così come di quello italiano, fanno così comprendere cole il fenomeno dell’investimento culturale d’impresa sia una realtà viva ed in continua espansione.
La percezione che il fenomeno sua potenzialmente utile al progresso della società è ben presente al legislatore, e la stessa evoluzione delle norme tributarie testimonia un progressivo allentamento nei requisiti e nelle procedure burocratiche precedentemente richiesti. Il risultato è che attualmente in Italia esistono tutte le premesse legali e fiscali perché l’investimento culturale possa diventare un fenomeno diffuso, apprezzato e vantaggioso per tutti gli attori in gioco.
Autore: Pierluigi Sacco
Fonte:Il Giornale dell’Arte