Il “modello italiano” di gestione e tutela del patrimonio culturale ha messo a punto nel corso dei secoli alcune caratteristiche essenziali. Riassumiamole:
a)– la concezione del patrimonio culturale come un insieme organico (di opere, monumenti, musei, case, paesaggi, città) strettamente legato al territorio che lo ha generato;
b)– l’idea che questo patrimonio nel suo complesso costituisce un elemento portante, irrinunciabile, della società civile e dell’identità civile, prima dei cittadini degli antichi Stati e poi dei cittadini italiani;
c)– di conseguenza, la centralità del patrimonio artistico nelle strategie di gestione dello Stato, e l’impegno dello Stato a proteggerlo o assicurandosene la proprietà o stabilendo norme di tutela applicabili anche a quanto resta in mani private.
Che cos’è, dunque, il “patrimonio culturale”? E come è nato il “modello italiano” a cui facciamo riferimento?
Cominciamo dai musei. Essi non sono nati dal nulla, ma sono anzi l’evoluzione delle grandi collezioni di principi, papi e sovrani degli antichi Stati, collezioni che nacquero come un’ostentazione di gusto e di prestigio, intesa come elemento essenziale della sovranità. Anche i re medievali avevano naturalmente posseduto i loro palazzi e “tesori”, che spesso includevano opere d’arte (in particolare gemme, manoscritti e oreficerie), accumulate per il loro valore monetario e per la loro rarità.
Ma fra Quattro e Cinquecento nacque, e nacque in Italia, un nuovo tipo di collezione, che si fregiava in primo luogo di statue antiche recuperate nelle rovine di Roma e di altre città romane, a cui venivano aggiungendosi le opere di artisti contemporanei, viste come una costante gara con l’Antico. Per dimensioni e per natura, il collezionismo cambiò faccia, e dalle corti venne diffondendosi anche presso cardinali e vescovi, aristocratici e mercanti, artisti ed eruditi, sempre con una connotazione di status sociale, ma anche con l’ambizione di fornire, ciascuno nella propria collezione, un’immagine di sé, una proiezione in figura del proprio gusto e del proprio ruolo.
Le collezioni “all’italiana” divennero rapidamente modello universale: re di Francia e d’Inghilterra e di Spagna, duchi bavaresi e arciduchi austriaci imitarono i prìncipi italiani formando collezioni esemplate sulle loro, felici quando le circostanze consentivano di acquisire in blocco collezioni di un principe italiano (fu così che cospicue raccolte si mossero da Mantova a Londra, da Modena a Dresda, formando il nucleo di raccolte e musei ancor oggi gloriosi). Felici ancor di più le città capitali, come Roma o Firenze, che poterono conservare intatte nel tempo le collezioni del loro sovrano, il papa o il granduca.
In quelle collezioni, il valore monetario delle opere raccolte veniva, per così dire, assorbito dal loro valore simbolico e metaforico. La collezione come tale, e cioè non come una mera somma di oggetti, ma per il suo dispiegarsi come insieme, era diventata un attributo della sovranità. Un attributo che, in gara assidua fra l’una e l’altra di quelle piccole capitali, implicava sì la ricchezza del principe, ma anche la sua cultura, il buon governo, la cura delle arti, la prosperità del popolo. Erano collezioni “chiuse”, o meglio aperte alla vista di pochi, cortigiani e ambasciatori, dotti e visitatori di rango; ma fra Sette e Ottocento si compì un ulteriore sviluppo, e si cominciarono ad aprire le collezioni al pubblico, gradualmente trasformandole in quello che oggi intendiamo per “museo”. Ci si accorse che dalla visita di quelle raccolte i cittadini potevano trarre non solo il piacere dell’osservazione, ma anche alimento per lo sviluppo delle arti e per coltivare il proprio senso di appartenenza a quella città, a quella civiltà, a quello Stato.
Fu sempre più evidente, per gli scritti dei dotti ma soprattutto per il formarsi di una coscienza comune, che fra quelle collezioni e i quadri e le statue degli stessi artisti che ogni cittadino poteva vedere tutti i giorni nelle chiese c’era perfetta continuità; che le opere mobili s’integravano a meraviglia nell’architettura delle città, che palazzi e chiese erano stati creati per accoglierle non meno di quanto quadri e statue erano stati creati per arredarli.
Il senso del decoro civile, la coscienza acutissima che l’immagine della città incarnava la nozione stessa di cittadinanza, aveva generato negli statuti delle città italiane precoci e spesso severe norme urbanistiche, che subordinavano la libertà di edificare del privato a norme di pubblico interesse: per esempio, a Siena si hanno norme in tal senso dalla metà del Duecento, a Verona dal 1276; non si costruiva, in queste e altre città, senza il permesso degli “ufficiali dell’ornato”. Passando gradualmente al dominio pubblico, le collezioni dei sovrani si integrarono sempre di più in questa solida e avanzatissima cultura delle città; momenti di grande crisi del patrimonio, in particolare la soppressione di conventi e beni ecclesiastici che provocò a più riprese, nell’Ottocento, ingenti spostamenti di opere d’arte, ma anche di proprietà immobiliari, alimentarono il mercato ma insieme acuirono la coscienza che il patrimonio artistico andava protetto nel suo insieme. Infine, l’evoluzione della cultura politica e civile dopo la Rivoluzione francese e nel corso dell’Ottocento, impose una nuova concezione della sovranità, che in Italia ha raggiunto il suo culmine con la Repubblica: titolare della sovranità non è più il re o il principe, ma il popolo, l’insieme dei cittadini. Ereditata dalle antiche dinastie e repubbliche, questa sovranità popolare si esercita anche sul patrimonio culturale, e comporta da un lato la sua massima accessibilità a tutti, e dall’altro la responsabilità, da tutti condivisa, di preservarlo per le generazioni future. I cittadini sono gli eredi e i proprietari del patrimonio culturale, tanto nel suo valore monetario che nel suo valore simbolico e metaforico, come incarnazione dello Stato e della sua memoria storica, come segno di appartenenza, come figura della cittadinanza e dell’identità del Paese. Il patrimonio culturale assume in tal modo una notevolissima funzione civile. Tanto è vero che in Paesi di storia molto più recente si è avuta, compressa in pochi decenni, una storia del tutto simile; la formazione delle grandi collezioni private degli Stati Uniti, spesso poi trasformate o confluite in musei pubblici, nasce proprio come potente espressione simbolica del progresso nazionale, in gara con l’Europa.
Data questa storia lunga e complessa (qui, è inutile dirlo, appena abbozzata), dobbiamo credere che tutto il “patrimonio culturale” debba essere proprietà dello Stato? Certamente no .E’ anzi chiaro che mentre la parola “patrimonio” di per sé può evocare l’idea di totale proprietà e controllo, nel caso del “patrimonio culturale” il significato è più complesso. Se un oggetto o un monumento (poniamo, una villa o un quadro) viene inteso come parte del nostro “patrimonio culturale” in virtù del suo significato e del suo valore, questo non significa che esso debba essere, o diventare, di proprietà dello Stato. Tuttavia, di chiunque sia la proprietà legale, il “modello italiano” prevede che a quella villa o a quel quadro siano associati comunque (e di chiunque sia la proprietà) dei valori che possono essere dichiarati, mediante notifica, di interesse pubblico, e perciò soggetti al controllo pubblico. In altri termini, se ho ereditato o comprato una villa del Settecento, posso farne quello che voglio, abitarla o venderla, ma non posso demolirla, non posso sopraelevare, non posso sventrarla, non posso suddividerla in minialloggi. La proprietà resta mia, ma lo Stato si riserva il controllo che di fatto limita la mia piena disponibilità del bene in nome di un interesse superiore, la conservazione dei valori storici e artistici propri di quella villa non come edificio isolato, ma per il contesto storico a cui appartiene: appunto, il patrimonio culturale del Paese. In ogni oggetto o monumento che appartenga al patrimonio culturale convivono dunque due distinte componenti “patrimoniali”: una si riferisce alla proprietà giuridica (e al valore monetario) del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l’altra a valori storici, artistici e culturali, che sono sempre e comunque di pertinenza pubblica (cioè di tutti i cittadini).La stessa parola " patrimonio" ha dunque in questo contesto una significato del tutto particolare, che è l’opposto di ogni individualismo proprietario (l’uso del bene a proprio esclusivo arbitrio), e si rifà invece a valori collettivi, a quei legali e responsabilità sociali che proprio e solo mediante il riferimento a un comune patrimonio di cultura e di memoria prendono la forma del patto di cittadinanza, rendono possibile l’ “interesse pubblico”, e dunque lo Stato.
E’ a questa concezione che implica una forte e mirata azione dello Stato, che dobbiamo se Siena è ancora, riconoscibilmente, una città medievale, se a Venezia non ci sono i grattacieli, se la Torre di Pisa (che non appartiene allo Stato) non è stata abbandonata al suo destino ma curata e “raddrizzata” a spese dello Stato in modo da assicurarle ancora secoli e secoli di vita.
Autore: Salvatore Settis
Fonte:Il Sole – 24 Ore