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ROMA. Riscoperti i preziosi affreschi di Andrea Sacchi.

A volte succede che un episodio riveli il suo vero significato soltanto tempo dopo, grazie a una circostanza casuale, e che allora, dinanzi all’importanza di quella notizia trascurata da tutti, ci si domandi con un certo stupore come mai non sia emersa prima: i motivi possono essere tanti; ma certo è che alla sorpresa si aggiunge meraviglia, come quando si scopre di avere sempre avuto, proprio vicino a noi, un tesoro incantevole, nascosto e dimenticato sotto uno strato di intonaco, dietro il portone di un palazzo in una delle zone più famose e frequentate del centro storico di Roma.
È capitato a Giovan Battista Fidanza, storico dell’arte e professore ordinario di storia dell’arte moderna all’Università di Tor Vergata, quando, in seguito alla richiesta degli editori dell’Allgemeines Künstlerlexikon, nel 2017, di compilare la voce sul grande artista del XVII secolo Andrea Sacchi, concentrandosi su un meticoloso spoglio delle fonti, si è imbattuto in una notizia di cronaca risalente a circa cinque anni prima, rimasta pressoché ignorata dal mondo accademico.

Gli-affreschi-di-Andrea-Sacchi-rinvenuti-a-Palazzo-a-Ripetta-photo-Zeno-Colantoni

Si tratta della scoperta, durante il restauro di un appartamento del Tridente, del superbo ciclo di affreschi realizzato da quel pittore, in fase ancora giovanile ma già straordinariamente matura e raffinata, nella loggia del cosiddetto Palazzo à Ripetta vicino a Piazza del Popolo già appartenuto al cardinale Francesco Maria del Monte (uomo di grande intelligenza e cultura, con interessi per le scienze, la musica e le arti figurative, protettore di Caravaggio e precedente proprietario di quel Casino Ludovisi oggi all’asta da un anno e del cui destino si è molto discusso recentemente).
Nel XIX secolo gli affreschi erano stati coperti da mediocri ridipinture, per restare ignoti persino ai moderni proprietari dell’edificio ormai inglobato nell’ottocentesco Palazzo San Martino Valperga. Se ciò può sembrare inspiegabile, va ricordato che questo ciclo decorativo precede momenti ben più noti della carriera di Sacchi come, per esempio, l’incarico di dipingere il Miracolo di San Gregorio Magno per la basilica di San Pietro (1625) o l’affresco della volta di uno dei saloni di Palazzo Barberini con la Divina Sapienza (1629-31), soggetto mai rappresentato prima di allora e definito da Francis Haskell il “progetto più ambizioso di rappresentazione figurativa di un concetto filosofico astratto dai tempi degli affreschi di Raffaello nelle Stanze vaticane” (Francis Haskell, Mecenati e pittori. L’arte e la società italiana nell’epoca barocca, 1980, ed. it. Einaudi 2019, p. 68).
Le uniche testimonianze del lavoro nel palazzo a Via di Ripetta si trovano, in effetti, negli scritti di Giovanni Battista Passeri e soprattutto nelle Vite di Giovan Pietro Bellori, il quale, avendo conosciuto personalmente Sacchi, può fornire informazioni preziose sia sul tema iconografico che sulla cronologia del lavoro e sulla biografia del pittore.

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I risultati degli studi condotti da Giovan Battista Fidanza sulla scoperta, dati dal confronto tra le fonti documentali e lo studio ravvicinato degli affreschi, sono ora pubblicati in un bel volume della casa editrice londinese Paul Holberton Publishing, Andrea Sacchi and Cardinal del Monte. The rediscovered frescoes in the Palazzo di Ripetta in Rome (2022), arricchito dalle eccezionali immagini in luce radente appositamente prodotte dopo la campagna di restauro condotta da Triana Ariè fra il 2010 e il 2011.
Ciò che emerge è, anzitutto, la meraviglia e l’emozione di uno studioso contemporaneo che riesce per la prima volta a entrare in quella stanza, riconoscerne le trasformazioni e, con il Bellori alla mano, confrontare direttamente gli affreschi di Sacchi con la descrizione quasi ecfrastica fatta dal suo biografo, procedendo a una sottile e puntuale disanima del soggetto iconografico. Ma, soprattutto, è recuperata la prima prova del talento di un artista che “ancor fanciullo” (neanche diciottenne) meritò la stima dei più colti e selettivi intenditori del suo tempo; un figlio illegittimo, dato in adozione in seno alla comunità marchigiana residente a Roma da cui i suoi genitori naturali forse provenivano, ma destinato a stima e riconoscimenti da parte dei Sacchetti, dei Barberini, dell’Accademia di San Luca di cui fece parte; esasperatamente lento e meditativo nel suo lavoro, bisognoso di concentrazione “acciocché niuna cura gli disturbasse l’ingegno”, ma a pieno titolo il precoce ed elegante erede di Francesco Albani e del grande Annibale Carracci, e certamente non inferiore all’altro astro del suo tempo, Pietro da Cortona. Un artista capace di creare con i colori il miracolo alchemico ricercato dal suo primo committente, trasformando un raffinato tema mitologico in oro, luce e materia sontuosa.

Autore: Mariasole Garacci

Fonte: www.artribune.com, 31 gen 2023

Alberto Dambruoso. Boccioni, Opere inedite.

A distanza di oltre cento anni dalla morte – e dopo quasi sei dall’uscita del catalogo generale edito da Allemandi a cura di Maurizio Calvesi e di chi scrive – Umberto Boccioni continua a regalare sorprese agli studiosi e agli appassionati d’arte. Sono ben quarantuno tra dipinti a olio, disegni su carta, inclusa una scultura, le opere inedite individuate negli ultimi cinque anni e mezzo, che si aggiungono al nutrito corpus dei lavori noti a testimoniare, ancora una volta, la straordinaria prolificità dell’artista nell’arco di una carriera durata nemmeno vent’anni.
Grazie al rinvenimento di alcuni disegni preparatori per dipinti già noti e viceversa in un caso, riconducendo a un dipinto inedito un disegno con soggetto simile, trova conferma la prassi messa in atto dall’artista, già palese per i numerosi disegni noti accostabili agli olii: Boccioni era solito realizzare vari studi su carta – dall’impianto compositivo generale dell’opera ai singoli dettagli – prima di prendere in mano i pennelli. Già per una delle prime opere note su tela, Campagna romana del 1903, conosciamo alcuni disegni preparatori in cui è possibile ravvisare il taglio orizzontale della composizione e gli schizzi delle mucche al pascolo.
Tra le ultime opere rintracciate vi è un disegno a china con tre studi di testa per il Ritratto del Cavalier Tramello dipinto da Boccioni durante un soggiorno a Padova agli inizi del 1907.
Il ritrovamento di alcune opere inedite all’estero (oltre al Brasile) in Francia, Germania e Inghilterra lascia presupporre che un collezionismo europeo intorno a Boccioni fosse sorto precocemente, in seguito alla circolazione delle sue opere presentate in occasione delle prime esposizioni internazionali personali e collettive del gruppo futurista. Nel periodo dal 1912 al 1915 è notevole l’attività dei futuristi fuori dall’Italia: si tennero mostre a Parigi (1912 e 1913), Berlino (1912 e 1913), Londra (1912 e 1914) oltreché a Bruxelles (1912), Rotterdam (1913), Lipsia (1914), fino a San Francisco (1915).
Un disegno inedito proveniente dallo Städel Museum di Francoforte, donato da un collezionista al Museo nel 1931, era stato molto probabilmente acquistato dal primo proprietario a una delle già citate esposizioni che si tennero in Germania quando Boccioni era ancora in vita, oppure subito dopo la sua morte, nelle mostre tenutesi a Berlino nel 1917 o nel 1922. In Germania era stato rintracciato anche il dipinto Nudo (complementarismo dinamico di forma-colore) del 1913 venduto dal noto critico e gallerista Herwarth Walden a un collezionista tedesco, probabilmente in occasione della mostra tenutasi alla galleria Der Sturm nel 1917.
Molte opere di Boccioni furono vendute all’estero dopo la metà degli anni Cinquanta, sotto l’impulso dei primi studi sull’artista condotti in Italia da Raffaele Carrieri e Calvesi, autore di una monografia su Boccioni con Giulio Carlo Argan nel 1953 in occasione di una mostra di Boccioni al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Dopo lunghi anni di silenzio, queste ricerche davano avvio alla riscoperta di Boccioni a livello internazionale. Nel 1951 il Museum of Modern Art di New York ha acquistato dal figlio di Ferruccio Busoni La città che sale (1910-1911), riunendo nel tempo un nucleo fondamentale di capolavori futuristi di Boccioni; dal 1956 i collezionisti statunitensi Harry e Lydia Winston Malbin acquisirono una serie di opere (principalmente di disegni e stampe, oltre alle fusioni di Antigrazioso, Sviluppo di una bottiglia nello spazio e Forme uniche della continuità nello spazio) in parte donata nel 1989 al Metropolitan Museum of Art di New York.
A parte la documentata storia di queste celebri collezioni, risulta difficile rintracciare eventuali altre opere di Boccioni all’interno di collezioni private estere, essendo state finora scarse le occasioni espositive di Boccioni fuori dall’Italia, che avrebbero potuto incentivare i rapporti tra collezionisti privati e istituzioni.
Le opere rinvenute tra il 2016 e il 2019 sono state esaminate e valutate con cura dal sottoscritto insieme al professor Calvesi, sebbene la malattia lo avesse debilitato al punto da impedirgli negli ultimi anni la scrittura. Dopo la scomparsa del professore, le valutazioni sull’autenticità delle opere che mi venivano sottoposte sono state accompagnate da scrupolosi esami di diagnostica strumentale e di perizie calligrafiche.
A fronte di una trentina di opere autentiche, sono state più del triplo le opere false che mi sono giunte con la richiesta di archiviazione. Nella maggior parte dei casi, i falsi si riferiscono a opere del periodo futurista – notoriamente quelle che fanno registrare in asta le quotazioni più alte dell’artista.
Tra le opere appartenenti al periodo prefuturista, di grande interesse sono alcune tempere giovanili eseguite a Roma quando Boccioni lavorava per la ditta Racah-Bossi, un negozio che produceva stampe di genere popolare, all’epoca di moda in tutta Europa, con soggetti quali scene di caccia alla volpe, di gite in campagna con le prime automobili, di figure vestite con abiti tradizionali olandesi o ciociari.
Di notevole importanza sono poi alcuni dipinti prefuturisti di paesaggio e ritratti. Tra i primi va sicuramente menzionato un paesaggio lacustre realizzato a pastello e datato 1903, che si colloca tra i primi paesaggi finora noti realizzati in assoluto da Boccioni, mentre tra i ritratti è da segnalarsi un meraviglioso olio che ritrae l’amata sorella Amelia, eseguito tra il 1906 e il 1907, proveniente dagli eredi di Gabriele Chiattone, tra i datori di lavoro di Boccioni a Milano, nonché uno dei suoi primi collezionisti. Sempre dagli eredi Chiattone provengono cinque paesaggi inediti eseguiti nello stesso arco temporale (1908-1909) di altre opere aventi il medesimo soggetto donate alla Città di Lugano nel 1961.
Da un’importante collezione ligure proviene invece una serie di dipinti e due disegni inediti, già nella collezione di Angelo Sommaruga, il noto editore, scrittore e gallerista milanese, tra le cui opere è stato inoltre rintracciato un suo ritratto eseguito da Giacomo Balla nel 1898. Sono tutte opere risalenti al periodo prefuturista di Boccioni di grande importanza, oltreché di grande qualità, perché offrono nuove testimonianze sul percorso di maturazione e affermazione dell’artista tra il 1903 e il 1909.
Per quanto riguarda il periodo futurista è emerso lo scorso anno in Inghilterra, a Dorchester, un dipinto di eccezionale bellezza. La tela, conservata smontata dal telaio, ritrae una giovane donna adagiata su un cuscino blu. Sebbene il soggetto rappresentato possa ascriversi al momento prefuturista, la pennellata decisa e il movimento impresso a tutta la composizione rivelano invece chiaramente il linguaggio pittorico futurista.
Un altro importante ritrovamento della produzione futurista è una fusione, mai prima documentata, di Forme uniche della continuità nello spazio (1913), realizzata dal fonditore Francesco Bruni in occasione della nota edizione della Galleria La Medusa del 1972, ed ereditata dalla nipote di Bruni nel 1994.
Di grande interesse, sempre di epoca futurista, è inoltre una serie di studi, eseguiti a china o a grafite, incentrati sul Dinamismo del corpo umano in movimento che arricchiscono questo significativo e prolifico momento della ricerca di Boccioni nel corso del 1913. A questo periodo si possono far risalire inoltre tre disegni che hanno per protagonisti altrettanti compagni dell’avventura futurista – Francesco Cangiullo, Antonio Sant’Elia e Carlo Carrà – che completano la galleria dei ritratti e delle caricature già noti degli amici futuristi, insieme a una autocaricatura dello stesso Boccioni.
Infine, di particolare rilevanza, anche per allontanare qualsiasi dubbio sulla autenticità di un dipinto del periodo futurista già oggetto di critiche in passato e ravvivatesi in tempi recenti, è il ritrovamento di due disegni inediti inequivocabilmente preparatori per l’opera contestata.

Info:
Alberto Dambruoso (a cura di) – Boccioni. Opere inedite
Maretti Editore, Imola 2022
Pagg. 96, € 50
ISBN 9788893970631
https://marettimanfredi.it

Fonte: www.artribune.com, 14 ott 2022

Ugo Celada da Virgilio, il pittore censurato dal fascismo.

I rapporti con il regime fascista non sono mai stati facili per gli artisti del Ventennio, che hanno subito a volte operazioni censorie più o meno gravi. È il caso di Ugo Celada (1895-1995), nato a Cerese di Virgilio, un piccolo comune vicino a Mantova: fin da bambino disegna talmente bene da convincere il padre a iscriverlo, a soli dodici anni, alla Regia Scuola d’Arte Applicata di Mantova, dalla quale passerà, grazie a una borsa di studio, all’Accademia di Brera, dove apprezza in particolare le lezioni del pittore Cesare Tallone, autore di ritratti dipinti a fil di pennello, di notevole espressività.
Nel 1914 parte come volontario per il fronte, dove viene impiegato come disegnatore di mappe militari per la precisione del suo tratto. Tornato dalla guerra decide di trasferirsi a Parigi, e lungo il tragitto si ferma per qualche tempo a Genova ospite della famiglia Della Ca’, che acquista alcune sue opere.
Il suo esordio ufficiale nel mondo dell’arte, con il nome di Ugo Celada da Virgilio, avviene alla Biennale di Venezia del 1920: qui le sue tele, caratterizzate da un realismo ossessivo e quasi fotografico, vicino al linguaggio di Cagnaccio di San Pietro e Antonio Donghi, ottengono un buon successo di critica e di pubblico, tanto che Celada viene invitato alle edizioni del 1924 e del 1926, dove, grazie soprattutto all’opera Distrazione, viene elogiato, unico italiano presente in mostra, dal presidente della giuria, il critico francese Émile Bernard, biografo di Cézanne, suscitando grandi invidie da parte dei suoi colleghi. Sulle ali del successo, gli inviti alle mostre si infittiscono.
Lascia Parigi e si trasferisce a Milano, e presenta le sue tele prima alla Quadriennale di Torino e poi alla Permanente di Milano, mentre nel 1930 espone alla Galleria Samadei in una collettiva insieme ad altri pittori del movimento Novecento, sostenuto da Margherita Sarfatti. Ma il dissenso con il gruppo e soprattutto la firma al manifesto antinovecentista, che denunciava il monopolio della cultura di regime, pubblicato sul giornale Il Regime Fascista, risultano fatali per la sua carriera, iniziata in maniera fulminea e brillante. Celada viene isolato e mai più invitato a mostre pubbliche, e vive grazie alle commissioni di ritratti da parte di noti esponenti della borghesia milanese, che ne apprezza lo stile, vicino a quello di Gregorio Sciltian.
Nel 1943, durante il bombardamento di piazza Cinque Giornate, il suo studio viene distrutto con tutte le opere che conteneva.
Isolato e schivo, alla fine degli Anni Cinquanta si trasferisce a Varese, dove muore centenario e dimenticato. La sua pittura viene riscoperta nel 1985 grazie all’apertura della collezione permanente del Museo Virgiliano, che custodisce una donazione di 56 opere del pittore. In quell’occasione Flavio Caroli scrive che Celada “supera in qualità tutti i suoi potenziali, valorizzatissimi emuli tedeschi e francesi (…) e merita di essere studiato e apprezzato come si fa di tanti grandi e piccoli maestri del passato”.
Il museo è stato riaperto al pubblico nel 2019, con un allestimento curato da Stefano Mangoni.

Autore: Ludovico Pratesi

Fonte: www.artribune.com, 16 gen 2022

Bortolo Sacchi, il pittore che dipingeva l’inquietudine di Venezia.

Una Venezia silenziosa e demoniaca, abitata da donne misteriose, nani dall’espressione grottesca e giovani santi in estasi. Questo è l’immaginario di Bortolo Sacchi (Venezia, 1892 ? Bassano del Grappa, 1978), protagonista dell’arte veneta negli anni del ritorno all’ordine ma con accenti nordici, dovuti ai suoi studi in Germania.
Bartolomeo, detto Bortolo, nasce a Venezia ma si forma all’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera con il professor Hugo Habermann, e lavora sia come pittore che come ceramista, dal 1909 al 1913.
Rientrato in patria, Sacchi si concentra principalmente sulla pittura, guardando alle tele di Felice Casorati ma anche alle opere di Gino Rossi: studia le tecniche pittoriche antiche ed è interessato alle visioni di santi e martiri, dipinte a fil di pennello dai maestri del Rinascimento veneziano come Andrea Mantegna, Giovanni Bellini e Jacopo Tintoretto.
Partecipa alla Prima Guerra Mondiale come ufficiale di Marina, e alla fine del conflitto si dedica anima e corpo all’arte, con risultati interessanti e originali, come l’opera Autoritratto in veste di santo (1920), dove si ritrae con lo sguardo rivolto verso se stesso e un’espressione estatica ma anche ironica. “Imbozzolata in una specie di vortice che la solleva verso l’alto, la testa aureolata del ‘santo’ si avvita su sé stessa e il collo si allunga oltre misura, in un’ascesi che è anche fisico sollevamento e letterale ‘presa in giro’ del genere ‘autoritratto’”, ha scritto Nico Stringa per sottolineare la peculiarità dell’arte di Sacchi.
Nello stesso anno l’artista esordisce alla Biennale di Venezia con due opere, Autoritratto e Le ortiche, dove compaiono già i segni della sua ricerca, rivolta verso una dimensione metafisica e fantastica in bilico tra passato e presente, che trova nel tempo immobile della città lagunare un palcoscenico perfetto. È uno stile che piace anche al re Vittorio Emanuele III, il quale acquista l’opera Il Cieco (1924); forse uno dei massimi capolavori di Sacchi è La straniera (1928), esposta nello stesso anno alla Biennale, dove una giovane donna dai tratti meticci cammina per le calli veneziane avvolta da un mantello a larghe pieghe, simile agli abiti dei santi nelle pale di Bellini o di Carpaccio.
Con un occhio al Simbolismo e l’altro al Realismo Magico, Sacchi raggiunge la maturità negli Anni Trenta, con opere come Le ballerine, Nudo allo specchio e Sul ponte.
Nel corso del decennio partecipa tre volte alla Quadriennale (1931, 1939 e 1943), nel 1935 espone undici opere alla mostra commemorativa dei quarant’anni della Biennale di Venezia, e quattro anni dopo vince il premio Quadriga con il dipinto La Fatica del Legionario.
La sua fortuna cessa dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando lascia Venezia e si ritira a Bassano del Grappa, dove muore nel 1978, a 86 anni.
Dimenticato per decenni, nel 2000 il Museo Civico di Bassano ha dedicato al pittore la retrospettiva Bortolo Sacchi 1892-1978: disegni, dipinti, ceramiche, curata da Mario Guderzo.

Autore: Ludovico Pratesi

Fonte: www.artribune.com, 10 gen 2022

RIVOLI TORINESE (To). Mostra epocale dedicata ad Achille Bonito Oliva.

Come un animale raro, un paziente zero della nuova critica, un oggetto prima non meglio identificato o un accadimento dell’essere: forse sarà studiato così Achille Bonito Oliva? Sarà stato lo specchio di un’epoca, di una civiltà?
È probabile che nel corso del futuro, prossimo e remoto, sarà studiato e poi dimenticato, quindi riscoperto, prima di diventare un classico come Vasari, Winckelmann o Warburg. E come il suo amico Harald Szeemann, con il quale nel 1993 a Venezia supera il paradigma dell’arte occidentale, fino a quel tempo concluso nel dialogo-diatriba tra Europa e Stati Uniti, organizzando I punti cardinali dell’arte, una Biennale epocale che costituisce un primo palcoscenico internazionale per l’arte altra alla vigilia della globalizzazione.
Per questo, e per molto altro, ABO sarà considerato come una delle figure chiave del panorama culturale del secondo dopoguerra e di un periodo che nella storia dell’arte potrebbe andare sotto l’etichetta della “dittatura del curatore”.
Nato il 4 novembre 1939 da una famiglia nobile che lo “deporta” ogni estate nel palazzo di famiglia a Caggiano, il piccolo Achille non gioca ma legge. A chi gli chiede “cosa vuoi fare da grande?” risponde: “Il bambino”. ABO è già tutto lì, la poesia lo precede. “Sognavo il mio funerale, da piccolo” confessa.
A Napoli studia legge ma è la poesia la vocazione e in due anni pubblica due raccolte: Made in mater, nel 1967, e Fiction Poems, nel 1968. A cui si aggiunge un libro di poesia visiva, Cinque Mappe del 1965, nel 1971. Sono gli anni della contestazione giovanile, dell’immaginazione al potere e dei sogni rivoluzionari.
ABO frequenta il Gruppo 63 e “inciampa” nell’arte una volta scoperta l’icasticità della parola poetica che si fa “immagine mentale” e che, come l’opera d’arte, sa perdurare nel tempo, fissata sulla pagina di un libro.
Si tratta dunque di un incontro fra pari. La poesia visiva, praticata con fervore d’artista, lo convince che i tempi sono maturi per una rivoluzione copernicana in seno al sistema dell’arte, incardinato sul ruolo dell’artista. Il critico, suo servo, deve liberare la propria creatività; non può più ruotare intorno al creatore dell’opera ponendosi a suo servizio e usando la parola scritta per notificare, archiviare e repertare.
Il padre da “uccidere” si chiama Giulio Carlo Argan, una istituzione, che per Achille rappresenta il dogma di una critica accademica che ha smarrito il senso della parola poetica.
Il padre putativo è invece il poeta Emilio Villa, colui che “scopre” l’opera di Alberto Burri e che scrive di Lucio Fontana.
Gli “aborismi”, aforismi di ABO, diventano lo strumento con cui scardinare la sovrastruttura critica. La sintesi di parola e pensiero costruisce immagini mentali che diventano slogan, ripetuti come un mantra dal critico-creativo e un po’ pubblicitario. Nella loro sinteticità del quasi-verso, tentano un arrembaggio al senso, cercano un contatto diverso, meno formalizzato con l’opera ma anche con ciò che le sta attorno: la società e le idee che offrono il contesto.
In alcuni saggi pubblicati su Domus nel 1972 teorizza il sistema dell’arte (dell’epoca), che diventerà uno dei suoi leitmotiv più citati: “L’artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media celebrano, il pubblico contempla”.
Mezzo secolo dopo, un aggiornamento possibile sarebbe, forse: l’artista escogita, il curatore decreta, il critico racconta, il gallerista si espone (finanziariamente), il collezionista espone il tesoro, il museo storicizza, i media ripetono, il pubblico fotografa, l’asta spettacolarizza, la fiera seleziona, l’influencer gioca, l’hedge fund specula, il filosofo dell’arte riflette.
Se la poesia è la lingua che si fa bisturi sul corpo dell’arte, ABO progetta, attraverso un nuovo sfruttamento della parola, una critica d’arte che possa creare senso ulteriore a partire dall’opera intesa come oggetto autonomo, protagonista del proprio tempo a prescindere dalla sua genealogia e contestualizzazione. E qui ABO tocca un vertice, giudica con la spada: l’artista rappresenta un “errore biologico” dell’opera stessa. La rivoluzione copernicana consiste in ciò.
Il nuovo sistema deve ruotare intorno al rapporto tra opera e curatore e non intorno all’artista. Ciò significa contrastare lo storicismo di Argan e il “puritanesimo” dell’arte concettuale proposta dalle neoavanguardie che considerano l’opera come un documento o come un concetto, piuttosto che come oggetto estatico.
“Argan” ? dichiara ABO ad Hans Ulrich Obrist ? “era portato a vedere nell’arte più il concetto che l’oggetto. Non aveva il feticismo dell’opera. Per lui, che aveva una formazione di impronta ideologica, a predominare erano il bisogno e la funzione dell’arte”. Ma l’opera, così come la parola poetica, è per ABO epifania, “pietra d’inciampo” che gli rivela come, in piena autonomia, essa stessa produca “molte sorprese al di là delle caratteristiche biografiche” di chi la realizza. Carolyn Christov-Bakargiev parla di un dono di sé che ABO compie a favore dell’opera d’arte, per liberarla (e liberarsi):
“La condizione ? il modo ? del dono è la scomparsa dell’artista e del critico stesso, in modo che la presenza dell’opera assurga a una sua oggettualità fuori dal tempo storico. Perché le parole del critico d’arte Bonito Oliva che spiegano l’opera, o l’atto di allestire l’opera in relazione allo spazio e ad altre opere nelle sue mostre collettive, la liberano nella storia dell’arte: la rendono autonoma, accompagnata del passaporto che egli, ormai non più presente, le ha conferito”.
Il critico, divenuto creativo, si fa curatore indipendente, si libera dalle (e nelle) istituzioni a favore di un nomadismo intellettuale che lo porta a superare la separazione del lavoro e dei linguaggi artistici.
ABO è il primo a curare una mostra in un garage, quello di Villa Borghese, e per di più interdisciplinare: Contemporanea (1973) sarà la matrice delle sue mostre successive, volte a elaborare in ambito curatoriale le intuizioni e le pratiche situazioniste e poi Fluxus, due delle tante “tribù dell’arte” a cui dedicherà una celebre mostra nel 2001.
ABO è ribelle rispetto alla critica istituzionalizzante (prima crociana e poi gramsciana) di Argan, di colui che fonda l’Istituto Centrale del Restauro, compone un manuale per i licei, si fa eleggere sindaco, quindi senatore. Eppure i due s’incontrano sul campo comune della scrittura: ABO ama raccontare come Argan lo abbia invitato a concludere la sua Storia dell’arte occupandosi del periodo 1960-oggi. Un riconoscimento (per certi versi reciproco) che segna un’epoca attraverso un passaggio di consegne. Se Argan è il critico del “secolo breve”, ABO è quello della postmodernità, della fine dei grandi racconti ideologici, di una globalizzazione che affianca, alla produzione di un “pensiero unico”, la scoperta e la celebrazione di sempre nuove tribù glocali, di pratiche e linguaggi che saldano il passato al futuro attraverso la strenua affermazione della voce sempre più singolare, individualista e solipsista, dell’artista slegato dalla dimensione collettiva dei gruppi e dei movimenti di matrice avanguardista. La sua Transavanguardia (teorizzata a partire dal saggio La Transavanguardia Italiana pubblicato su Flash Art nel 1979) punta alla transizione, è un transito rivolto alla valorizzazione del genius loci, dell’eclettismo e del nomadismo culturale che si fa canto poetico di una singolarità inestinguibile ma frammentata e di un’arte “indecisa a tutto”, espressione di un soggetto in stato di minorità. E così, come la poesia non può prescindere dal poeta, anche la critica non può più prescindere dal critico nel senso che una critica “oggettiva” fondata su criteri scientifici, come ad esempio il modello filologico delle scienze umane, deve lasciare il posto alla soggettività panica del poeta che opera in modo diverso dall’archeologo e dall’archivista. Questi operano una critica “catastale e notarile”, che giunge al senso dell’opera attraverso i documenti storici, mentre lo sguardo poetico e sintetico del critico dona senso lasciando essere l’opera. Un tale sguardo reagisce a una società che ha prima strutturato e poi mancato l’obiettivo dell’utopia, come appare chiaro intorno alla metà degli Anni Settanta quando ABO scrive un libro che affronta il Cinquecento per rileggere e riprogettare il proprio tempo. L’ideologia del traditore.
Arte, maniera, manierismo (1976) è un’opera capitale che, come dice l’autore, “descrive il passaggio dal principio d’invenzione a quello di citazione che accompagna tutta la valenza concettuale dell’arte nei secoli”. Basta sfogliare l’indice per capire il nuovo tipo di approccio adottato: una serie di 41 trittici di parole danno il titolo ad altrettanti capitoli senza paragrafi. Questa semplice elencazione di 123 sostantivi evoca temi e visioni, è come una poesia. All’onesta “ingenuità” di un’arte inventiva, concepita dall’artista rinascimentale come conoscenza della natura ma inconsapevole rispetto al proprio essere un linguaggio, ABO contrappone l’impresa dell’artista manierista che assalta, da una posizione ormai decentrata e “laterale”, il campo dell’assoluto attraverso un rinnovato rapporto con il linguaggio.
L’assoluto a cui dà la caccia non è più l’Idea che si rispecchia nella visione conciliata del mondo, quanto piuttosto una pratica che produce libertà: “L’arte” ? scrive ABO ? “non è più considerata imitazione della natura, ma espressione di un’attività intellettuale eminentemente creatrice”.
“Al soggetto forte del Rinascimento” ? prosegue ? “subentra un soggetto minore” e ciò comporta che l’opera manierista sia presieduta dalla ideologia del traditore, che “utilizza le categorie del Dramma, del Mito e della Tragedia come convenzioni linguistiche”. “La citazione diventa il procedimento che ispira la ripresa di modelli culturali con i quali ovviamente l’artista del ‘500 non può più identificarsi”. La messa in opera traduce tali modelli in “traccia deviata e deviante”.
Questa estetica della traccia è quanto lo stesso ABO mette in opera nella Transavanguardia recuperando l’ideologia del traditore.
Interessante notare come anche il quasi coetaneo Carmelo Bene (classe 1937), segua la via della traccia deviante. Il momento storico è segnato da una nuova convinzione: la Storia non ha un fine, né una fine. Ciò coincide con la “Nietzsche-Renaissance” e ABO, che ama Nietzsche, sembra rileggere la figura dell’artista-critico come “oltreuomo”, Übermensch, come colui che è in grado di ironizzare, dissolvere e decostruire, in senso vitalistico, le ossificazioni della storia e dell’ideologia. Il soggetto minore post-metafisico non ama confini e divisioni. Per lui vivere è già sempre un creare nel modo del dire. L’intelligenza smette di essere progettazione e tenta una fuoriuscita del (e dal) pensiero. Carmelo Bene lo chiama depensamento e con esso rilegge il proprio narcisismo, che è quello che condivide con ABO. Il loro Narciso non è tanto colui che si specchia sul filo dell’acqua e così facendo si possiede in immagine e si pensa, ma è colui che volendosi possedere poiché innamorato muore inghiottito nella profondità liquida: è la falena che si getta nella fiamma. ABO appare più moderato ma non avulso da questo (de)potenziamento tragico-narcisistico della soggettività ideologica e ideologizzante, che dà luogo a un narcisismo di ritorno nel senso di un’auto-consapevolezza del proprio narcisismo che si esprimerà per decenni attraverso “performance” eclatanti (la sua terza via, dopo lo scrivere e curare mostre) quali ad esempio posare nudo per riviste come Frigidaire, partecipare a fotoromanzi o occupare lo spazio televisivo allestendo uno spettacolo della parola.
Ma è soprattutto nella sua “scrittura espositiva”, quella usata per creare mostre, che ABO sembra incrociare il modus operandi di quella “macchina teatrale” che Bene si compiace di essere. L’autorialità, rivendicata dal critico d’arte costituitosi come curatore indipendente, è la stessa rivendicata dall’attore artifex nel momento in cui, adottando la “scrittura di scena”, supera il teatro di parola, la sacralità del testo, il rito della sua interpretazione e con ciò tutta la tradizione del teatro precedente. La visione storicistica è ciò che, sia Bene (che con Deleuze scrive Sovrapposizioni, nel 1978) sia il nietzschiano ABO, intendono superare emancipando i rispettivi ruoli, che per tradizione sarebbero subalterni e che invece vengono “riscritti” e liberamente reinventati, sovvertiti e ricostruiti attraverso una logica del superamento e della decostruzione.
La convenzione storica è ormai vissuta come un totem da abbattere. ABO e Bene sono due esempi di splendidi “traditori”, capaci di edificare una ideologia post-utopica che nella presa di coscienza, infelice, della disfatta del progetto collettivo e della frantumazione individualizzante della società, sposano l’eroismo superominico che unisce tanto il decadentismo eroico di Gabriele D’Annunzio quanto il cinico romanticismo di Giacomo Leopardi, due figure eccedenti della letteratura italiana, non pienamente catalogabili. La coscienza dell’impossibilità di un progetto universale, collettivo e comune, libera le energie narcisistiche che permettono a due personaggi come ABO e Bene di rimpadronirsi di un destino, diventando autori attraverso la scrittura di scena (Bene) e la scrittura espositiva (ABO).
Oggi, dopo oltre sessant’anni di lavoro, decine di mostre, libri ed “apparizioni” o “auto-esposizioni”, ABO descrive a che punto siamo: “La mia generazione è riuscita ad interpretare al meglio un ruolo in cui non esisteva la spaccatura fra teorico, critico operativo e comportamentale, posizioni che corrispondono a tre livelli di scrittura: saggistica, espositiva e, appunto, comportamentale. Ora assistiamo invece ad una frantumazione dei ruoli, c’è un minimalismo della critica, una riduzione di visibilità, una voluta emancipazione da ogni ruolo centrale, e una preferenza per l’informatore, ovvero colui che scrive per i quotidiani, fa cronache dell’accaduto nell’arte, o per il curatore, ossia colui che aiuta i musei a fare le mostre”.
Non è un caso che il Museo di Rivoli, guidato da Carolyn Christov-Bakargiev, e il suo centro di ricerca, guidato da Andrea Viliani (che ha fatto un lavoro prodigioso su mostra e catalogo), abbiano salvato un archivio così sorprendente.
Con questa mostra, dopo quella dedicata a Harald Szeemann, il museo si riprogetta come luogo di riflessione sulla professione del curatore ma soprattutto sul ruolo del pensiero nell’arte, un ruolo che porta il museo non soltanto a essere una somma di reperti del passato, ma ad attivare tali reperti dentro una rilettura incessante del passato prossimo in vista di un confronto migliore con il presente e con un futuro incerto, nel quale un museo come il Castello di Rivoli potrebbe assumere il ruolo di bastione di avvistamento e difesa rispetto all’arrivo di quei “barbari” attesi, temuti e narrati da Dino Buzzati, Kostantinos Kavafis o Alessandro Baricco: popoli che non comprendono più la nostra lingua, che non vivono più nella nostra temporalità, che non abitano più i nostri spazi. Popoli nativi digitali per i quali occorrerà un nuovo ABO, uno che forse avrà studiato l’originale, magari proprio nelle sale del centro di ricerca del Castello di Rivoli.

Autore: Nicola Davide Angerame

Fonte: www.artribune.com, 5 gen 2022