La prima tesi che gli autori enunciano, quella su cui fondano tutte le altre, definisce uno dei due poli entro cui si sviluppa la loro riflessione: il patrimonio. Il secondo polo, l’educazione, viene discusso nella seconda e nella terza tesi.
Il patrimonio non viene definito nei suoi elementi costitutivi, piuttosto ne vengono enunciate le qualità: l’estensione (è diffuso), la mobilità (è in divenire), la polisemia (è polivalente), la possibilità di essere interpretato con diversi strumenti (è interdisciplinare) e quella di essere riconosciuto come traccia di un’esperienza umana (identitario).
Il carattere dinamico del patrimonio viene documentato anche dai riferimenti normativi di cui gli autori riportano a fine capitolo alcuni paragrafi. Il primo documento che essi propongono, la Convenzione UNESCO del 1972 sulla protezione del patrimonio culturale e naturale, esprime ancora l’idea di patrimonio classificabile in alcune macrocategorie. L’ultimo documento citato, prodotto dal Consiglio d’Europa nel 2005 sul valore sociale del patrimonio culturale, ne evidenzia invece la natura eterogenea e interdisciplinare e soprattutto lo mette in relazione con la comunità che lo possiede – la Heritage Community – e con i suoi valori.
La Heritage Community, infatti, riceve e seleziona gli oggetti, le tracce, i documenti da trasmettere a sua volta alle generazioni future. Dominique Poulot[1] stabilisce una relazione tra questo concetto e il diritto romano: il patrimonio è rappresentato da tutti i beni trasmissibili, cioè destinati a essere lasciati in eredità alle generazioni successive. Quindi il patrimonio non è solo quello che abbiamo ricevuto ma quello che decidiamo di conservare, tutelare, lasciare a nostra volta in eredità. Possiamo anche aggiungervi qualcosa che resti come segno del nostro passaggio.
Tuttavia in questa prima tesi la Heritage Community viene ridotta al ruolo, un po’ debole, di coloro che sono “correlati” al patrimonio: le istituzioni culturali pubbliche e private che lo gestiscono, le organizzazioni che lo comunicano, le istituzioni politico amministrative, e quelle non governative e infine i privati cittadini.
L’ordine con cui questi soggetti vengono indicati rivela una visione corretta, ma in qualche modo rigida della relazione eredità-eredi: i cittadini, gli eredi effettivi del patrimonio, sono stati elencati per ultimi. Eppure essi, pur essendone spesso inconsapevoli fruitori, possono pianificarne l’ eliminazione o distruggerne un aspetto che riconoscono come estraneo oppure addirittura ostile.
Se il patrimonio è diffuso, le sue tracce sono molteplici, le memorie sono diverse, anche all’interno di uno stesso gruppo e di uno stesso tema. Ci sono memorie di guerra e memorie di esilio, memorie di vittoria e memorie di emigrazione senza ritorno. Poiché l’eredità è ibrida e conflittuale, l’intervento di tutela e quello di comunicazione e formazione devono essere estremamente consapevoli, sofisticati, attenti all’insidia della semplificazione.
L’intervento educativo, la mediazione, la conservazione possono rivelare il meccanismo del patrimonio, il gesto con cui le tracce del passato vengono riconosciute selezionate e trasmesse.
Il testamento della nostra epoca non sarà semplice da eseguire. Può darsi che l’ipotesi di Gérard Wajcman [2]secondo cui il Monumento dei nostri tempi è un “Champ de Ruines” sia quella corretta. Wajcman pensava al monumento alla Shoah, ma potremmo riferire la sua idea ai Buddha di Bamiyan e al museo di Bagdad (Maffi:2007)[3], che non verranno lasciati in eredità. Può darsi anche che il testamento stabilirà la restituzione di eredità sottratte, e che altri obelischi viaggeranno a ritroso verso la loro sede originaria. Gli autori delle 22 tesi, però, hanno citato sapientemente come premessa al loro libro una delle città invisibili di Calvino, Eufemia, ”la città in cui si cambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio”[4]: il loro auspicio, forse il loro progetto, è dunque quello che il gesto patrimoniale sia innanzitutto uno scambio.
Presentazione generale:
[1] “Elementi in vista di un’analisi della ragione patrimoniale in Europa, secoli XVIII-XX”, in Antropologia, VI,7,p. 131.
[2] Gérard Wajcman, L’objet du siècle, Lagrasse, Verdier, 1998
[3] Irene Maffi, “Introduzione”, Antropologia, VI, 7, p.5-17
[4] Italo Calvino, Le città invisibili, Torino,Einaudi,1972, p.
Autore: Anna Vaglio