In apparenza molto poco rispetto al passato ma in fatto di vendita dei beni culturali e di tutela del paesaggio le novità sono “rivoluzionarie” e fonti di preoccupazione per chi crede nella conservazione del patrimonio.
Un paio d’anni fa, quando si cominciò a far balenare l’idea di un nuovo Codice dei beni culturali, mi chiesi a cosa potesse servire un’operazione legislativa di tal genere, se è vero che, solo pochi anni prima, nel 1999, si era provveduto a redigere il Testo unico in materia di beni culturali e ambientali. Va detto che “testo unico” e “codice” costituiscono raccolte tematiche di disposizioni sparse in vari testi legislativi, di cui sia necessario dare riordinamento, razionalizzazione, semplificazione. Quindi sono in pratica la stessa cosa. Che bisogno c’era allora, di compilare dopo così poco tempo addirittura un codice, in una materia viceversa caratterizzata da assoluto immobilismo legislativo, tanto che la famosa Legge Bottai, del 1939, era rimasta in vigore per sessant’ani? La necessità di un nuovo intervento, così ravvicinato, poteva attribuirsi a una bizzarra frenesia compilativa, figlia della proliferazione legislativa cui negli ultimi anni gli operatori del diritto hanno ormai fatto l’abitudine. Qualche spiegazione poteva discendere dall’essere il Testo unico del 1999, peraltro culturalmente in linea con la tradizione conservativa (nel senso della conservazione a oltranza dei beni culturali al patrimonio demaniale) della legge del 1939, il prodotto ideologico della trascorsa XIII legislatura. Impressione avvalorata dalla constatazione di una mutata concezione di stampo liberistico che, viceversa, nella presente XIV legislatura, informa i rapporti tra amministrazione e cittadino, e che tende ad affidare qualsiasi settore dell’attività umana alla concorrenza, all’iniziativa privata, alle leggi del mercato: non poteva essere risparmiato il settore dei beni culturali. E allora, se si va a leggere il nuovo Codice voluto del ministro Giuliano Urbani, emanato con decreto legislativo n. 41 del 22 febbraio 2004 (G.U. suppl. n. 45/84; entrata in vigore il I maggio 2004), si constata che gran parte delle norme sono la pedissequa riproduzione letterale del Testo unico del 1999, eccezion fatta per un paio di “temi caldi”, quelli della vendita dei beni culturali e della tutela del paesaggio. A questi due temi il Governo, redattore del Codice su delega del Parlamento, ha dato importanza così pregnante, da non accontentarsi di semplici aggiustamenti al Testo unico vigente, sicché al commentatore non resta che constatare che se queste modifiche hanno raccomandato il varo di un codice, è intorno a questi due temi che si qualifica, oggi, la politica dei beni culturali.
I beni del demanio culturale (non) possono essere venduti.
In passato, al demanio storico-artistico appartenevano i beni immobili, caratterizzati, in qualche modo, da un interesse culturale. Diversamente, i beni di proprietà privata, per essere sottoposti a tutela, dovevano presentare un’importanza particolare, e avevano bisogno di un procedimento amministrativo sfociante nella cosiddetta “notifica”. Prerogativa dei beni demaniali era l’assoluta invendibilità. Qualche incrinatura al sistema era stata introdotta fin dal 2000 dal decreto Melandri, che ne aveva ammessa la vendita, tuttavia subordinata ad autorizzazione ministeriale. La rottura con il passato rigidamente conservativo si è avuto con la legge “Tremonti”, di cui ci si è occupati altre volte, che mediante la costituzione di società (Patrimonio s.p.a., Infrastrutture s.p.a., S.c.i.p) “mette a reddito” i beni pubblici (anche quelli di interesse culturale) o li offre in garanzia per il finanziamento delle grandi opere pubbliche. L’art. 53 del nuovo Codice dei beni culturali dichiara solennemente che “i beni del demanio culturale non possono essere alienati”, ma negli articoli seguenti predispone un sistema per cui, a parte alcune eccezioni, questi beni possono essere venduti, purché con l’autorizzazione del Ministero. Ma non è questo il punto. In realtà il sistema è sovvertito a monte, nel senso che è la demanialità stessa degli immobili di interesse culturale a non essere più un postulato, come nel sistema del Testo unico del 1999. Dice l’art. 12 del nuovo Codice che i beni del demanio culturale sono sottoponibili a una “verifica” sull’esistenza di un reale interesse storico, artistico, archeologico, etnoantropologico, che, se si risolve in senso negativo, rende il bene perfettamente vendibile, senza ulteriori valutazioni di sorta o autorizzazione di chicchessia. Il bello – anzi, il brutto – è che l’iniziativa per la dismissione compete a un organo, l’Agenzia del demanio, di connotazione finanziario-contabile, di modo che la procedura ha il suo incipit in valutazioni di mera redditività economica. Inoltre, l’apparato soprintendentizio, chiamato all’istruttoria e al responso tecnico sull’esistenza dell’interesse culturale, ha solo 120 giorni per rispondere. Se non emette provvedimento motivato entro questo termine, la verifica si conclude in senso negativo, e il bene non è più demaniale, e si può vendere.
Silenzio-assenso: soprintendenze in lotta contro il tempo.
E’ notoria la trasformazione subita negli ultimi tempi degli uffici delle soprintendenze, chiamate a far fronte a compiti ingrati, di natura sempre più marcatamente burocratica e sempre meno propulsiva, anche perché da quando per la materia dei beni culturali, ai fini del riparto delle competenze tra Stato e regioni, si è concepita l’infelice spaccatura tutela-valorizzazione, gli uffici degli enti territoriali hanno reclamato sempre maggiori competenze, con il risultato di svuotare la centralità del ruolo un tempo investito dal soprintendente sul territorio. La demotivazione dei funzionari si accentua per la necessità di far fronte al lavoro routinario, sempre più pressante (e poco qualificante), da assolvere in situazioni di drammatica carenza di organici, perché non si bandiscono concorsi da anni. Questo è lo scenario su cui è destinata ad abbattersi la richiesta, prevedibilmente consistente, di verifica di beni un tempo indiscutibilmente considerati inalienabili, perché altrettanto indiscutibilmente culturali: l’Agenzia del demanio trasmette alla soprintendenza regionale l’elenco degli immobili su cui compiere la verifica, la soprintendenza regionale incarica le soprintendenze periferiche, le quali, entro il termine, perentorio, di trenta giorni, devono compiere l’istruttoria ed esprimere il parere, da rimettere alla regionale, e questa entri i successivi sessanta giorni comunica l’esito della verifica. Compresi i passaggi tra uffici, non devono trascorrere più di centoventi giorni, altrimenti, come si è detto, è come se la verifica sia negativa, cioè il bene di cui si tratta non abbia interesse storico-artistico; e sia liberamente venduto. E nemmeno è ipotizzabile che per salvare il salvabile la soprintendenza snellisca la procedura di accertamento tecnico, formulando sintetiche verifiche positive (nel senso della sussistenza dell’interesse culturale): la specifica previsione che il provvedimento debba essere “motivato” – non bastava, evidentemente, il principio generale per cui gli atti amministrativi devono essere motivati – lascia intendere la necessità di un estremo scrupolo della esplicitazione degli aspetti della culturalità, poiché in caso di dubbio, o di motivazione insufficiente, contrariamente a quello che il buon senso suggerirebbe data la posta in gioco, il sistema è orientato verso una presunzione di “disinteresse” culturale del bene piuttosto che di interesse.
E per l’ambiente tramonta l’era Galasso.
L’altro aspetto saliente del nuovo Codice è la modifica della tecnica di tutela del paesaggio. E’ noto che nel 1985 una legge, nota come “Galasso” dal nome del proponente, vincolava gran parte del territorio nazionale alle ragioni della tutela del paesaggio, dell’ambiente, di una migliore qualità della vita. Nell’ambito territoriale vincolato, il Ministero per i beni culturali, attraverso le soprintendenze, poteva annullare entro sessanta giorni qualsiasi autorizzazione a trasformare il territorio rilasciata dalle regioni, che, come si sa, dagli anni Settanta sono competenti in materia. Si trattava di un potere in gran parte teorico, attesa l’impossibilità di un controllo capillare delle autorizzazioni rilasciate a livello locale: ma nel corso degli anni è indubitabile che il potere ministeriale di annullamento, per la tenacia di qualche soprintendente, abbia evitato non pochi scempi. La logica della legge “Galasso”, con il nuovo Codice, viene sostanzialmente rinnegata. Le categorie geomorfologiche assoggettate a tutela a priori dal 1985 (coste, laghi, fiumi, montagne, boschi, parchi, zone archeologiche), fino all’approvazione dei piani paesaggistici, rimangono. Ogni intervento che interessi le zone tutelate, o altri beni assoggettati nel tempo a speciale tutela, deve essere autorizzato dalla regione, o dall’ente da questa subdelegato. Ma quella valvola di sicurezza paesistica che era il potere di annullamento del Ministero (già previsto dall’art. 151 comma 4 del Testo unico), che a livello locale giustificava un ruolo di supervisione dei soprintendenti, non esiste più: ora la soprintendenza viene informata preventivamente dalla regione della domanda di nulla-osta paesaggistico e deve esprimere un parere entro sessanta giorni. Inutile dire che decorso il termine senza provvedimento la regione provvede ugualmente. E che il parere non è vincolante, nel senso che l’organo competente ad autorizzare i lavori può fare di testa sua.
Cosa cambia nel paesaggio italiano.
E’ un dato oggettivo, storicamente acquisito, che l’attribuzione delle competenze in materia di paesaggio agli enti territoriali, non è stato il toccasana per la salvaguardia del territorio nazionale: è innegabile che gli enti locali, i cui rappresentanti soggiacciono a una responsabilità di tipo politico di fronte agli elettori, siano vicini agli interessi locali e sensibili alle mediazioni, disposti a sacrificare la purezza di quei valori immateriali, che l’estetica e la storia esprimono, al cospetto di altri interessi, teoricamente meritevoli di tutela in egual misura, quali l’occupazione, la libertà di iniziativa economica, lo sfruttamento della proprietà. L’operare degli organi non politivi è viceversa informato unicamente a discipline di ordine tecnico-scientifico. Che non ammettono compromessi con interessi di natura diversa. Il Ministero e le soprintendenze sono organi tecnici. Essi, in buona sostanza, nella logica della legge “Galasso”, erano chiamati a dire, eventualmente, l’ultima parola. Con il sistema del Codice “Urbani” la loro parola non è l’ultima e, quando fanno in tempo a esprimerla, essa vale solo fino a un certo punto.
Autore: Stefano Benini
Fonte:Archeologia viva