RIETI: Museo Diocesano.

Al tramonto del XIX secolo, dopo l’inevitabile corollario di profanazioni e dispersioni seguito alle soppressioni che ne avevano segnato la storia, il vescovo Bonaventura Quintarelli, che fu alla guida della Diocesi di Rieti dal 1895 al 1915, anno della sua morte, assolse al compito di raccogliere nell’ufficio delle sue attività pastorali tutti quegli oggetti liturgici che erano rimasti incustoditi, quasi res nullius, nelle tante pievi rurali abbandonate, nelle chiese e nei complessi ex conventuali del territorio soggetto alla sua opera pastorale.

Così, il canonico Leopoldo Quintarelli, segretario e nipote del vescovo, ne celebra la memoria sottolineandone l’impegno nella tutela del patrimonio storico-artistico della Chiesa locale: “raccolse e comperò a sue spese oggetti artistici sacri (…) che la insipienza e la ignoranza dei detentori lasciavano trascurati nelle soffitte e che sarebbero certamente andati perduti, se il provvido intervento (…) non li avesse messi in rilievo ed onore. Con l’andar degli anni aveva nell’Episcopio adibito un corridoio – che servì un tempo da cappella privata del Vescovo – e in un grande armadio chiuso, conservava gli oggetti d’arte sacra raccolti nelle sue pastorali peregrinazioni. Questo piccolo museo, ricco di tanti oggetti di cui l’occhio esperto e competente di mons. Quintarelli aveva saputo riconoscere il valore artistico, alla sua morte fu lasciato in donazione al Museo Civico di Rieti che vide così aumentata la serie di tesori d’arte di cui è ricco”. (Cfr. L. Quintarelli, Cenni biografici di mons. Bonaventura Quintarelli vescovo di Rieti, Venezia 1936)

Agli inizi del XX secolo, né i tempi né le circostanze erano certo maturi perché si potesse ipotizzare l’apertura di un Museo d’arte sacra: i beni ecclesiastici raccolti da monsignor Bonaventura Quintarelli confluirono dunque nella collezione del Museo Civico, aperto nel 1865 e riallestito nel 1909 presso il palazzo comunale di Rieti.

Lunghi decenni trascorsero fino a che nel 1974, potè essere inaugurato da monsignor Dino Trabalzini, all’epoca vescovo di Rieti, il Museo del Tesoro del Duomo nell’allestimento curato da Luisa Mortari, appassionata conoscitrice della storia dell’arte sabina che fin dal 1957 curato un’importante mostra sull’arte locale e, nel 1961, aveva redatto il catalogo e provveduto al riassetto del Museo Civico.

Presso il Museo del Tesoro del Duomo trovarono spazio accanto agli arredi ed agli oggetti liturgici della cattedrale numerose opere provenienti da chiese abbandonate, comunque condannate al deperimento.

Il criterio espositivo dominante fu dunque eminentemente conservativo, non dissimile nella sostanza da quello adottato per il Museo Civico.

Nel corso di tre decenni, sono maturate le concezioni poste in atto e divulgate dall’A.M.E.I., l’Associazione dei Musei Ecclesiastici italiani che individua ed indica la natura teologica dell’opera d’arte cristiana.

A tali concezioni, s’ispira oggi l’allestimento di un più ampio ed articolato percorso museale, che nella globalità di un saldo progetto di tutela dei beni culturali e cultuali valorizza gli ambienti evidenziandone le originarie funzioni e rendendo evidente la coerenza interna fra lo spazio consacrato, la celebrazione del Mistero, la dimensione liturgica dei beni culturali ecclesiastici, l’espressione di fede.

L’attuale Museo Diocesano si sviluppa dunque in diversi spazi, dal battistero alle sagrestie della basilica inferiore, tra loro collegati mediante l’attraversamento del duomo e dell’adiacente complesso della Curia.

A questi si aggiungerà prossimamente la pinacoteca destinata ad occupare la duecentesca sala delle udienze del palazzo dei Papi.

Il nucleo storico del Museo del Tesoro del Duomo ha sede da ormai tre decenni nell’antico battistero, adiacente alla cattedrale: al centro dell’aula, è il pregevole fonte battesimale dalle purissime forme rinascimentali.

Su di un basamento quadrangolare in cui si alternano zampe leonine e palmette, s’innesta un’agile colonnina scanalata e rastremata, culminante in un rocchio decorato con foglie d’acanto, a sostegno della vasca fasciata da un motivo decorativo che unisce agli elementi araldici del cardinale Angelo Capranica i delfini affrontati al tridente di Nettuno.

L’ampio cofano bombato che chiude la vasca culmina nell’Agnus Dei, sorretto da tre delfini. Elementi floreali e delicate testine di Serafini affiancano l’arme del committente, che guidò la Diocesi di Rieti fra il 1450 ed il 1468.

Altri importanti elementi scultorei decorano le pareti del Battistero: accanto alle pietre tombali, fra cui si segnala per eleganza il bassorilievo di Caterina Capranica, nipote del vescovo e moglie di Luca Peccatori, sono i quattro Profeti e Santi – David, Isaia, Santa Barbara, San Giovanni Battista – realizzati da Federico di Filippo di Ubaldo da Firenze in collaborazione con Salvato di Girolamo Pirozi per il maestoso tabernacolo della cappella del SS.mo Sacramento, smembrato agli inizi del XVII secolo.

Gli ambienti recentemente recuperati nelle adiacenze della Basilica Inferiore, consacrata dal vescovo Dodone insieme con i vescovi delle vicine Diocesi di Narni, Forcona e Tivoli il 1 settembre 1157, furono utilizzati nel corso del XVII secolo come sagrestie in uso per la Compagnia delle SS. Stimmate di San Francesco, istituita nel 1606 dal vescovo Gaspare Pasquali.

Nel 1607, il pittore leonessano Gioacchino Colantoni aveva affrescato integralmente le pareti della basilica inferiore, raffigurandovi accanto alle Storie dal Vecchio e Nuovo Testamento gli episodi salienti della vita di San Francesco.

Questi affreschi furono scialbati o, peggio, distrutti nell’anno 1922, in occasione dei lavori di consolidamento e ripristino che investirono opportunamente l’intero complesso della Cattedrale e della Curia, perché giudicati di gusto popolaresco dai Regi Ispettori Onorari dei monumenti e scavi Francesco Palmegiani ed Angelo Sacchetti Sassetti.

Gli spazi esterni all’absidiola della basilica inferiore, caratterizzati dalle armoniose volte a crociera, mantengono la loro funzione di collegamento ospitando il lapidarium.

L’attuale allestimento del Museo Diocesano, voluto dal vescovo monsignor Delio Lucarelli e curato dalla Commissione d’Arte Sacra della Diocesi, rimarca con chiarezza la sua identità: un luogo d’incontro tra fede e cultura, di cui l’espressione figurativa si fa strumento e veicolo di messaggi religiosi e spirituali, differenziandosi dalle altre strutture espositive del territorio proprio per la sua specificità didascalica, non limitandosi ad effettuare un’opera di tutela e salvaguardia dei beni artistici, ma recuperandone la valenza espressiva, proponendosi come luogo di comunicazione, di educazione e di edificazione promovendo l’affinamento della cultura visiva attraverso la ricerca di significato, l’analisi iconografica ed iconologia, la lettura diacronica dei contesti e dei fenomeni artistici ed orientando il visitatore alla riflessione ed alla meditazione sul mistero.

L’attività di allestimento è nata attraverso la formulazione di ipotesi e progetti che dovranno maturare nel tempo attraverso il tracciato di alcuni percorsi che dovranno in futuro avvalersi di supporti multimediali, utili alla descrizione, alla contestualizzazione, alla comparazione delle opere secondo un criterio ipertestuale.

Attraverso le attività che avranno come fulcro il Museo Diocesano, si potrà dunque contribuire a compendiare, studiare, valorizzare un patrimonio ecclesiastico di notevole interesse ed a riconoscere il ruolo magistrale esercitato dalla Chiesa locale come committente, realizzatrice, conservatrice di importanti opere artistiche.

In particolare, nelle sagrestie hanno trovato collocazione le opere lignee dei secc. XIV-XVII eseguite da anonimi maestri d’ascia, esperti nell’arte dell’intaglio ornamentale, dell’intarsio, della laccatura e della doratura che confermano la ricchezza di contatti con la cultura figurativa in un territorio che fu crocevia fra Umbria, Marche ed Abruzzo, in cui si sedimentano tradizioni stilistiche assai significative.

Accanto a queste opere, espressione di una sensibilità artistica spiccata che collima con l’intento di esprimere contenuti di fede e devozione, trovano spazio elementi di arredo e di uso liturgico che hanno assolto nel tempo a diverse funzioni di culto e catechesi: fra questi ultimi, meritano particolare attenzione i tabernacoli e gli ostensori, nella cui produzione vennero a convergere la cura degli artisti e l’intento dei committenti con il moltiplicarsi dei miracoli eucaristici nel corso dell’età medievale a cui conseguì l’esigenza di conservare l’Eucaristia con il massimo zelo in un luogo atto ad assicurarne ad un tempo la custodia e la sacralità.

Sono molti e di pregio gli oggetti d’uso liturgico custoditi presso il Museo Diocesano: si tratta infatti di croci astili, reliquiari, pissidi, ostensori, ampolle, calici preziosi per materiali e tecniche d’esecuzione, che documentano stilisticamente l’evoluzione del gusto e delle abilità attraverso l’arco di oltre sette secoli.

Rappresenta un esemplare unico il riccio di pastorale in avorio inciso che dal tardo XIII secolo è usato nelle principali solennità dai Vescovi reatini: si tratta di un raffinato lavoro d’intaglio realizzato da un anonimo artista di tradizione romana, che include nella spirale sulle cui facce cui scorre l’iscrizione gotica “Ave Maria gratia plena Dominus tecum Benedica” e “Agnus Dei qui tollis peccata mundi Miserere nobils” la figura simbolica dell’Agnus Dei recante la croce ed il vessillo della resurrezione, per mezzo della quale sconfigge il drago apocalittico.

Assai numerose sono le croci processionali che documentano la vivacità d’esecuzione a sbalzo, cesello e smalto fiorita dal XIII al XV secolo in un singolare crocevia fra la tradizione orafa umbro-toscana e quella abruzzese.

Tra le suppellettili ecclesiastiche, le croci lavorate a cesello ed a sbalzo, spesso con inclusioni in smalto policromo costituiscono un patrimonio inestimabile di tradizione fiorita incessantemente dal Duecento fino all’epoca del tardo Barocco: la preziosità viene conferita assai di frequente dalla raffinatezza inventiva e dall’abilità di realizzazione piuttosto che dai materiali a cui gli orafi fanno ricorso. Nelle croci arcaiche in specie le lamine metalliche sono assai sottili, giustapposte o sovrapposte con perlinature, centine e placchette che assumono una facile funzione decorativa. Anche negli esemplari più tardi, la patina di doratura supplisce abilmente alla qualità delle leghe adoperate, esaltando l’abilità di esecuzione che gli orafi – di scuola abruzzese, laziale, toscana – per lo più anonimi, ma validi artisti, dimostrano di possedere.

E’ la tradizione abruzzese, e sulmonese in particolare, a stabilire i canoni pressoché fissi di un’iconografia che assume un valore assoluto nel senso comune non meno che nel significato dottrinale e teologico: la croce, che presso i Romani era il patibolo più infamante, assume il valore simbolico più esaltante, fino a divenire elemento di identità per i seguaci di Cristo.

Alle croci astili, che testimoniano la raffinatezza dell’arte orafa locale accanto alla fitta rete di relazioni che lega la Diocesi reatina ai più importanti centri della cultura artistica fiorita nell’Italia centrale prima e dopo il Concilio di Trento, si aggiungono i reliquiari che assumono accanto all’evidente valore di custodia e di esaltazione della memoria un accessorio, ma non meno significativo significato artistico.

Il reliquiario storicamente ed esteticamente più rilevante è il busto di San Balduino, opera di Bernardino da Foligno, realizzato in lega metallica ed argento dorato con le tecniche dello sbalzo e del niello al tramonto del XV secolo. Il Santo, che fu monaco cistercense e fondatore della comunità locale che provvide alla bonifica della piana reatina tornata ad impaludarsi dopo secoli dall’apertura della cava Curiana, viene raffigurato dall’artista umbro con i tratti nobili e schietti di un uomo alle soglie della vecchiaia, il volto aperto ad un caldo sorriso, lo sguardo limpido, la barba ricciuta fluente sulla cocolla dell’abito benedettino.

Il realismo rinascimentale del busto reliquiario di San Balduino rappresenta un unicum nel Museo Diocesano reatino, dove prevalgono oggetti dalle forme più convenzionali, come vasi, coppe, pissidi oppure ostensori. Bisognerà attendere l’ultimo ventennio del XVIII secolo per avere ancora un reliquiario figurativo, nella statuetta raffigurante l’Evangelista Giovanni con il suo emblema parlante, opera dell’argentiere romano Giovanni Felice Sannini.

Fra i committenti delle opere custodite ed esposte presso le sale del Museo Diocesano si segnalano, per numero e per liberalità, i Vescovi che sempre ebbero a cuore la costruzione, la manutenzione, la dignità dell’utilizzo e la tutela del patrimonio architettonico ed artistico della Chiesa locale, così come attestano le fonti d’archivio, in particolare i resoconti delle Visite Apostoliche, delle Visite Pastorali, dei Sinodi e delle Relationes ad Limina.

Non meno assidua fu l’opera dei membri del Capitolo della Cattedrale, incaricati di coordinarne i lavori di allestimento o di rifacimento, gestendo i rapporti con i progettisti, gli artisti, le manovalanze impiegate, controllando la qualità dell’esecuzione ed il rispetto dei contratti, provvedendo ai pagamenti.

Costante fu l’apporto dato dalle confraternite, che dotarono cospicuamente le loro sedi, e delle singole comunità parrocchiali diffuse nel territorio della Diocesi. Da molte di queste antiche chiese parrocchiali, ormai quasi dirute, provengono importanti testimonianze di una religiosità schietta ed autentica che trovano nel Museo Diocesano il luogo elettivo, deputato alla conservazione ed alla tutela.

Autore: Ileana Tozzi

Link: http://www.museodiocesanorieti.it

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