CULTURA. La cultura è l’eredità: da Dante al Colosseo ora servono competenze.

Investire in cultura significa per prima cosa investire nella creazione di cultura, cioè in conoscenza. Un Paese che non studia ha scarsa memoria del passato, una consapevolezza inevitabilmente effimera del valore dei suoi monumenti (materiali e immateriali), e poca propensione a crearne di nuovi, in qualunque campo. Se questa è la premessa, bisogna chiedersi come ovviare ad alcuni errori del passato e delineare un progetto forte per il futuro. Vorrei aggiungere così qualche elemento intorno ai temi lanciati dal ‘Manifesto per una costituente della cultura‘ del Sole 24 Ore. Il primo fronte di azione è il dibattito che l’Europa sta affrontando in questi mesi proprio sul ‘cultural heritage’.
Il Sole 24 Ore «Domenica» del 19 febbraio ha lanciato un manifesto in cinque punti e una Costituente affinché la cultura diventi un motore per lo sviluppo.
Tutti d’accordo nel farlo rientrare nell’agenda del prossimo decennio e schiudergli le porte di finanziamenti copiosi, ma con definizioni e quindi con programmi molto distanti tra loro. Da un lato si propone di identificare l”eredità’ con i monumenti che ci ha consegnato una storia millenaria. Non è cosa nuova: almeno da trent’anni anche noi favoleggiamo di ‘giacimenti’, ‘patrimoni’ e ‘tesori’, l’equivalente metaforico delle miniere d’oro o i pozzi di petrolio per un paese che non possiede né le une né gli altri.
Ora, invece, l’Italia si è finalmente impegnata a livello europeo perché il concetto di ‘heritage’ sia declinato in modo più aperto e inclusivo: ne farebbero parte, se ci riusciamo, non solo il Colosseo e il Prado, ma anche Dante e Kant.
I primi segnali sembrano incoraggianti, se è vero che anche la Germania e la Gran Bretagna, oltre alla Spagna, stanno mostrando interesse per questa visione intellettualmente più sofisticata e certo non meno ‘produttiva’ sul piano pratico, anzi l’unica che fornisca garanzie sul lungo periodo.
Un analogo cambiamento di paradigma si impone sul fronte del sistema educativo. Negli ultimi decenni l’Italia ha imboccato una strada pericolosa, quella di rinunciare, se non in chiave nostalgica (e quindi residuale), alla difesa delle scienze umane in quanto tali, per decantare invece le potenzialità dei ‘beni culturali’.
I ‘beni’, naturalmente, vanno difesi, restaurati, e, certo, anche utilizzati come strumento di crescita economica. Ma prima di tutto vanno capiti: se si abbandona l’idea delle scienze umane come laboratorio di comprensione critica del passato e del presente, della creatività umana in tutti i suoi aspetti, si finisce in un vicolo cieco in cui prima o poi si perderà la distinzione tra la Cappella Sistina e Disneyland.
A livello universitario, l’ingegnosa invenzione dei beni culturali e delle scienze del turismo come discipline autonome già a partire dal triennio ha illuso sull’esistenza di una scorciatoia per consentire alle facoltà umanistiche di accreditarsi almeno sulla carta come viatico credibile per il mondo del lavoro, non perché formano preziose competenze trasversali, ma in quanto sfornerebbero ‘professionisti’ pronti all’uso.
Valorizzare davvero la cultura impone invece scelte diverse per diversificare e rafforzare i profili richiesti da un mondo del lavoro molto articolato. Da un lato si tratta di dare impulso anche in questo settore agli Istituti tecnici superiori, ai quali si possono affidare percorsi formativi post-diploma direttamente professionalizzanti. Dall’altro, di risparmiare alle facoltà umanistiche una metamorfosi degradante ma esaltarne al contrario la ragion d’essere fondamentale, innestando su solide lauree ‘tradizionali’ -in storia dell’arte, letteratura, storia, filosofia…- approfondimenti davvero interdisciplinari e professionali a livello di master, uno strumento più adatto allo scopo della laurea magistrale. A ciascuno il suo, quindi: agli Its la preparazione di super-tecnici a stretto contatto con le aziende; alla laurea umanistica una preparazione ricca e lungimirante nei contenuti e nel metodo; i master l’arricchimento con esperienze e competenze di tipo economico e gestionale.
A chi scrive è capitato di fondare qualche anno fa a Londra un master in ‘Cultural and Creative Industries’ che è diventato in breve tempo un punto di riferimento internazionale: un master, appunto, aperto a studenti con background culturali diversi e pronti ad affrontare nuovi percorsi di studio, ma solo dopo aver portato a termine lauree prive di dubbie ibridazioni.
Oggi in Italia due terzi delle lauree triennali in Beni culturali sono incardinate in facoltà umanistiche e solo un terzo in quelle di economia, con il rischio, purtroppo molto concreto, di rappresentare un’alternativa ‘light’ a studi rigorosi di archeologia o storia dell’arte senza adeguata compensazione su altri fronti. Siamo ancora in tempo a ripensarci: soprattutto per noi sarebbe un disastro se tra vent’anni ci ritrovassimo con migliaia di ‘operatori dei beni culturali’ tutti laureati, ma nessuno capace di leggere cosa c’è scritto sulla facciata del Pantheon.

Autore: Alessandro Schiesaro

Fonte:Il Sole – 24 Ore