In principio c’era il museo pubblico, inteso come archivio della memoria, luogo dell’identità nazionale, strumento di educazione civile. Per la gran parte del Novecento, nell’Europa dei fascismi, dei comunismi, delle socialdemocrazie, dei governi democristiani, nessuno avrebbe mai pensato al museo come risorsa anche economica, come luogo di interesse per l’iniziativa privata. Tutto è cambiato all’inizio degli anni Ottanta quando il vento del liberismo e della destrutturazione privatistica ha cominciato a soffiare in Italia e in Europa.
II ’900 che era stato statalista per la gran parte del suo corso – in Italia c’era fino a ieri una economia che potremmo definire per certi aspetti para sovietica, con l’IRI e con le partecipate, con lo Stato che produceva non solo energia elettrica e combustibili, acciaio e cemento, chimica e strade ferrate ma anche baci Perugina, pomodori pelati, panettoni etc. – è diventato iperliberista nel suo ultimo segmento. Quando ero giovane mi insegnavano e volevano convincermi che il privato è pubblico, ora che giovane non sono più vogliono persuadermi che il pubblico deve diventare privato. Sono le mutazioni della storia, ogni generazione ha i suoi “idola Phori” come insegnava il grande Bacone.
Ai giorni nostri scenari privatistici (o presunti tali) si aprono anche sul fronte dei musei e si aprono in un clima culturale di convincimento diffuso, sostenuto a destra come a sinistra. Valgano due soli esempi.
Un recentissimo decreto del Ministro Buttiglione (del 13/6/05) istituisce un gruppo di lavoro incaricato di “approfondire le forme e le modalità per la costituzione di fondazioni di diritto privato, finalizzate alla gestione delle attività di valorizzazione dei beni culturali etc…”. Si dirà che questo è il provvedimento tipico di un governo di centro destra. Niente affatto perché il d.l. del 20 Ottobre ’98, in pieno centro sinistra, diceva le stesse cose prevedendo che il Ministero potesse “costituire o partecipare ad associazioni, fondazioni e società, al fine del più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, per la valorizzazione dei beni culturali e ambientali”.
Intanto era intervenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001. A seguito della riforma del Titolo V, mentre la tutela rimaneva affidata agli organismi statali, la valorizzazione nel settore dei beni culturali diventava competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni. Il che è ribadito (e non poteva non esserlo) nell’ultimo codice Urbani. Il carattere autonomo e indipendente che oggi la costituzione riconosce alle potestà regionali e locali in materia di valorizzazione dei beni culturali, è un fatto nuovo e di grande portata che entra “a gamba tesa”, (si direbbe in gergo calcistico), nello scenario delle istituende fondazioni museali.
Ma caliamoci nella realtà italiana e quindi nelle soluzioni possibili. Immaginiamo una fondazione che riguardi per esempio gli Uffizi o, per meglio dire, il sistema dei musei statali fiorentini oggi raggruppati nel Polo: 25 milioni all’anno di introiti da biglietterie, diritti di riproduzione, concessione d’uso, settecento dipendenti, circa 5 milioni di utenti ogni anno.
I fondamentali ci sono, la massa critica c’è perché si possa immaginare una fondazione. Purtroppo manca l’elemento costitutivo essenziale della fondazione di tipo americano, mancano cioè i capitali privati. In America c’è il finanziamento che viene dagli enti pubblici (per esempio le municipalità) e poi ci sono i “trustees”. “Trust” è un verbo inglese che non ha il corrispettivo italiano. Vuol dire confidare, avere fiducia, “credere” in senso quasi religioso in un progetto o in una missione. “In God we Trust” c’è scritto infatti sul dollaro. Negli Stati Uniti (un paese che per scelta costituzionale vuole ridotte al minimo le funzioni dello Stato) ci sono cittadini che credono nel museo e nel museo investono i loro soldi. Sarebbe possibile questo in Italia? Ne dubito. Dove sono da noi i grandi privati virtuosi? L’unico esempio di mecenatismo capitalistico privato in Italia è stato palazzo Grassi, a Venezia, proprietà della famiglia Agnelli. È finita come sapete.
Da noi non ci sono, non ci sono mai stati, i grandi privati generosi e virtuosi. Il nostro è sempre stato il paese del capitalismo di Stato e del microcapitalismo artigianale e familiare: l’economia del distretto, del “cespuglio”, del pulviscolo produttivo, il popolo delle partite IVA, le valli dove si producono soltanto occhiali, o pentole, o cucine componibili, o scarpe.
In compenso ci sono le fondazioni bancarie. Che non possono essere considerate “privati” nel senso classico della parola. Privato è uno che coi suoi soldi può fare quello che vuole. Può comprare un Canaletto da venti milioni per regalarlo agli Uffizi oppure giocarsi quei soldi al Casinò. Potrebbe comportarsi così il Presidente dell’Ente Monte dei Paschi? Certo che no perché la fondazione bancaria è una realtà semipubblica che svolge funzioni di surroga di supporto alle istituzioni culturali e agli organi elettivi presenti nel territorio ed è orientata e controllata da molte potestà interne ed esterne.
Quindi immaginiamo una “Fondazione Uffizi” dove ci siano i grandi enti bancari toscani (Cassa di Risparmio, Monte dei Paschi) e poi chi ancora? La Regione e il Comune certamente, forti dei poteri concorrenti nel settore della valorizzazione che la legge 3 del 2001 esplicitamente riconosce. Ci sarebbe di necessità lo Stato che è proprietario delle opere d’arte che ha i suoi dipendenti inamovibili ed ipergarantiti e che continuerebbe a pagare il personale (30 milioni costano all’anno i dipendenti del Polo fiorentino mentre solo di 25 è l’incasso delle biglietterie e dei servizi aggiuntivi…a proposito della fruttuosità dei musei!). Ci sarebbero anche i sindacati, perché in Italia i sindacati ci sono dappertutto. Quanto ai rappresentanti del Comune e della Regione essi sarebbero il risultato di sottili bilanciamenti, di complicate alchimie politiche. A loro volta i rappresentanti delle fondazioni bancarie dovrebbero rispondere ai consigli di amministrazione che li hanno designati. E quale sarebbe il ruolo del tecnico? Abbastanza marginale, temo, se non ininfluente; fortemente condizionato, in ogni caso, dal primato della “politica politicante”.
Altra cosa sono le fondazioni all’americana. Lì ci sono i privati veri che si siedono al tavolo delle decisioni perché su quel tavolo mettono i loro soldi e quindi possono assumere o licenziare, comprare o vendere senza che la politica possa interferire più di tanto. Il modello americano va bene per l’America. Qui da noi non è praticabile né augurabile. Noi italiani abbiamo inventato il concetto di tutela su tutto il patrimonio ovunque distribuito e comunque posseduto ed è nostra l’idea di museo pubblico che è di tutti perché è la ‘res publica‘ che tutti rappresenta a possederlo e a gestirlo. La fondazione museale che si vorrebbe e si potrebbe realizzare alle nostre latitudini è un ibrido dove di americano c’è solo l’epigrafe e tutto il resto rimane molto tradizionale. Con lo Stato che paga, i privati veri che non ci sono, la politica che comanda e i tecnici che contano sempre di meno. Nihil varietur, quindi. Meglio lasciare le cose come stanno.
Autore: Antonio Paolucci
Fonte:Il Giornale di Civita