TORINO: Inaugurato il nuovo scenografico allestimento “E luce fu – L’arte di illuminare l’arte”

“FIAT lux” non è soltanto un precetto biblico, ma è anche un principio estetico basilare. Se ne deve essere ricordato lo scenografo Dante Ferretti, uomo di teatro (lirico insieme con Liliana Cavani) e di cinema, entrando nel soffocante ambiente del Museo Egizio e cercando di rianimarlo con un bocca a bocca di pura luce vivificante. E come in una notte dei sarcofaghi viventi, quelle anime di pietra si sono risvegliate assorbendo lo sguardo magnetizzato del visitatore. Se non ci fosse il sole, del resto, ci ricorda Platone nel Mito della Caverna, che spande luci e ombre, non esisterebbero quelle sagome illusorie del contingente, che ci allontanano dal mondo delle idee e che gli schiavi, immersi nel buio, scambiano con la realtà.

Quando fu rimproverato a Beato Angelico di dipingere miniaturisticamente in una cupola ad altezza così disumana, lui rispose: “Io dipingo per la luce di Dio”. E ci si domanda ancora con quali torce, e quale senso a noi sconosciuto, gli uomini primitivi rendessero “arte”, illuminando le caverne, i loro selvaggi graffiti, misterici e ancora misteriosi. Senza dimenticare che Leonardo e Caravaggio accecavano i loro studi con stoffe e paludamenti, per giocare poi con fiaccole e candele e ottenere un teatro artificale di luci radenti, utili per essere riverberati nelle loro tele. Di qui la moda del notturnismo e del caravaggismo, che prende l’Europa come una malattia. Sarà un caso che Picasso in Guernica appende al cielo sconvolto dalla guerra una lampadina elettrica?

Anche Dante Ferretti, che ha rivoluzionato le polverose sale del Museo Egizio, trasformandole in un altissimo gioco di riverberi e di labirinti illusori, non nega di aver voluto giocare “con la spettacolarità degli specchi, con il mistero antico della luce e un’atmosfera scenografica, onirica”.

Resuscitare la plasticità sopita dell’antica statuaria, con il solo prodigio annidato di luci, che non mostrano la loro fonte, e strisciano come rettili insinuanti e sommessi su queste pelli levigate di basalto. Così, ora, si ha davvero l’impressione di entrare in un antro appena scoperto, con un sofisticato ma soffocato mixaggio di voci, di sibili allarmanti, di gocce di rugiada da savana, che ci tallona alle spalle e fa un poco, pochissimo, senza invadenza, Indiana Jones. Ma il nostro lato bambino, nutrito di Jules Verne, non può che vibrare in questo felpato Viaggio al centro dell’Egitto, color di mogano e pegamoide.

Però poi la visione è assolutamente purificata: si ha come la parvenza incantata di penetrare in una tomba senza fine (la stessa impressione che devono aver vissuto i Lord Carnavon o i primi fortunati tombaroli), di ammirare una teoria sconfinata di steli, di monumenti accoppiati, di giganteschi volti impietriti di faraoni, anche se poi un sapiente gioco di luci a pioggia ci permette di studiare e godere, uno a uno, questi miracolosi reperti archeologici. E noi, spettatori attutiti e come abrasi dallo spettacolo, ci riflettiamo quasi fantasmi alla Henry James, negli specchi bruniti che sostituiscono le pareti (e le petulanti finestre d’un tempo) permettendoci di scomparire con estatica felicità in quei labirinti illusionistici, che decompongono le rigide pareti dell’istituzione Museo.

”Non posso dire quanti specchi ho provato, in simulazioni dal vero, prima di ottenere questo effetto-magia”, spiega Ferretti, che è dominato da questa immagine invasiva del flusso di luce, che trafigge la realtà, come bene documentano i suoi disegni (di La nave va, del Barone di Münchhausen, di The Aviator) ancora esposti alla torinese Galleria “In Arco” di piazza Vittorio: una doccia impalpabile di pulviscolo, “sì, ma sempre al servizio dell’opera d’arte”. E questo è fondamentale: perché finalmente steli e scribi e Tutankhamon, che si possono ora apprezzare di volto e di schiena, come l’arte egizia pretende, ritrovano una loro carnagione viva e minacciosa, plumbea e lucente, dopo che per anni l’incuria e l’abitudine le avevano cerate d’inedia e piallate di neghittosità. Ora ritrovano il loro tessuto minerale, le pieghe sinuose, il silenzio tombale, persecutorio e ipnotico.

Gli scultori hanno sempre riconosciuto il ruolo capitale della luce, nella presentazione delle loro opere. Canova disponendole su basi ruotabili, per inseguire il bacio frigido del lucore neoclassico. Rodin cercando alchemicamente d’incamerare l’oro spento della luce che muore, dentro le pieghe annodate dei suoi personaggi corrosi. Giacometti assottigliando a tal punto la materia, che spesso la luminosità del giorno accarezzava il Nulla, decomposto nella Notte. Mentre Brancusi delegava alla levigatezza del platino il suo senso polito della lucentezza.

Anni fa, in una memorabile mostra fiorentina a Palazzo Medici Riccardi, lo storico americano e curatore della Guggenheim, Fred Licht (un nome che è un programma), aveva concertato una mostra-messinscena geniale, che dimostrava, con cambi repentini di luci e giochi, a taglio, da spot, o di luminosità diffusa, come la scultura cambi radicalmente di senso e di forma e di funzione, a seconda della sua illuminazione. Lo sapeva benissimo Medardo Rosso, che negli ultimi anni di vita, esasperato nel vedere come irrazionalmente erano allestite le sue mostre, aveva deciso di fotografare personalmente le sue figure impressionistiche, con l’illuminazione da lui prediletta, e poi di far circolare soltanto le immagini replicate sulla superficie fotografica, letteralmente «gettando via» i supporti, di gesso e bronzo. Una rivoluzione davvero copernicana. Ma non dimentichiamo nemmeno che anche il grande Bernini, progettando la “macchina” barocca dell’Estasi di Santa Teresa, aveva programmato, calendario alla mano, che in un preciso istante dell’anno, quello della beatificazione della Santa, un raggio di luce penetrasse in un varco architettonico, appositamente predisposto nella cappella, e colpisse come un dardo erotico la sua sensualissima estasi.

Poi magari ti arriva uno di quegli architetti alla moda, preoccupati soltanto del proprio segno invasivo e narcisistico, e ci piazza disinvoltamente una cupoletta, che fa tanto Pei, e azzera tutto quel calcolo estetico-astronomico. Esattamente quel che è successo nello scandaloso allestimento, perpetrato da Fabbrica, per una mostra del Canova, qualche anno fa a Belluno, ricordata ahimé più per quello scandaloso e stupido accrochage che per la presenza di opere ragguardevoli. Delirante, infatti, l’idea di sollevare le opere dell’algido maestro neoclassico, per illuminarle da sotto, grazie a uno zoccolo di ghiaccio fosforescente, quasi Psiche Paoline & compagne fossero cubiste da night. Snaturando tutte le prospettive e i “tagli” ombreggiati, previsti meticolosamente dallo scultore (e suggeriti persino da alcune stampe, create appositamente per evitare questi sfracelli) e rendendo di plastica sintetica quelle carnagioni d’avorio. In quel caso lo specchio era adoperato in modo aberrante, distruggendo le prospettive anatomiche e creando echi raggelanti. Difficile dimenticare quel povero Cimarosa, che, riflesso negli specchietti da bagno d’una mise-en-scène stile boudoir-Tinto Brass, si ritrovava una pappagorgia più degna d’una Madame Arthur che di un caposaldo della musica neoclassica. Fiat lux, d’accordo, ma con judicio.

Autore: Marco Vallora

Fonte:La Stampa