Tate modern un museo-lager

Non so se vi è mai capitata l’occasione di visitare un museo, quando sono in commando le scolaresche dei più piccini, precoci kamikaze d’asilo spesso deportati con buone intenzioni a odiare per sempre l’arte, soprattutto se messi a contatto con artisti più grandi della loro capacità di comprensione, Malevic, Merz o altri concettuali che siano. Costretti a forza (seduti o graziosamente stravaccati controvoglia a terra, tra gli squittii commossi delle mammine, e dediti soltanto alla scappatoia liberatrice del dispetto del compagno), mentre un intemerato docente blatera luoghi comuni divenuti dogmi, chiedendo loro di riconoscere qui un inesistente limone là una virtuale lambretta (come se fosse questo il vero valore dell’arte). Ebbene, a vedere come vanno le cose negli ultimi musei più à-la-page , c’è davvero il rischio di considerarci noi tutti dei coatti bambini analfabeti, costretti a una “asilizzazione” rampante.Basta l’esempio della neonata, Tate modern, così sontuosa e spettacolare nelle sue forme esteriori. Ma se sali ai piani e (via folli effetti speciali d’accoglienza) ti fermi a riflettere un poco a come è stato organizzato (non più cronologicamente ma tematicamente) il viaggio-charter attraverso i capolavori britannici della collezione del Museo, un poco di brividi ti assalgono. Intanto quelle nere scritte impositive, che ti accolgono sulla soglia come marchi da Lager: se giri a destra sei costretto come Dante a entrare nel girone di Materia, Paesaggio, Ambiente, se svolti dall’altro lato eccoti finito nel pelago di Storia, Memoria, Società, e guai se ti viene da guardare un’opera, così, per le sue intrinseche qualità, senza vigilare se sta nel sacchettino dei Nudi oppure nelle Nature Morte (e allora, povero Picasso, che disse un giorno che anche le nature morte erano per lui dei nudi?). Insomma, non che il vecchio metodo della cronologia fosse la panacea, ma almeno ti lasciava libero di reagire ad un’opera come meglio ti pareva. Qui, invece, ormai è tutto impacchettato, predigerito, surgelato, un attimo di sguardo-scongelo e devi già passare a un altro capitoletto del bigino d’avanguardia, godendoti al massimo la schiccheria snob e stolta d’un Morandi accanto a Kossuth, perché entrambi hanno a che fare col Tempo! Oppure Long vis-à-vis di Cèzanne perché entrambi destinati allo scaffalino del Paesaggio. Che tristezza questi manicaretti della New Aesthetics col vizietto del vetrinismo! L’unico effetto è che il ligio visitatore, d’un complesso Bonnard, non veda altro che il soggetto, nudo e null’altro. Un bel colpo davvero!

Autore: Marco Vallora

Fonte:La Stampa