Se l’esportazione clandestina l’ha fatta un ladro

Fra i principi giuridici fondamentali di un ordinamento democratico vi è, in materia penale, quello del divieto d’applicazione analogica delle norme sanzionatorie. In sintesi: la norma penale che prevede un reato deve essere applicata ed interpretata entro i limiti espressi dal cosiddetto " dettato normativo" , ossia del testo espresso nella formulazione che ne ha fatto il Legislatore. L’interprete non può estendere tale testo sino a ricomprendervi casi diversi, anche se questi presentino una sostanziale coincidenza con quello regolato dalla legge.Questo principio si ritrova, innanzi tutto, in una norma di rango costituzionale (art. 25/2 Costituzione), poi nell’art. 1 del Codice Penale del 1930 (venne, dunque, riconosciuto anche dalla dittatura fascista, fedele in questo alle origini liberali dello Stato Italiano), infine nell’art. 14 delle disposizioni preliminari al Codice Civile del 1942. Dunque è un principio saldamente affermato nell’ordinamento italiano, che, proprio per questo, si dice rifiuti la cosiddetta " concezione sostanzialista del reato" (l’illecito penale s’identifica nel disvalore oggettivo della condotta, socialmente apprezzato: la privazione della vita o della libertà personale non richiede una condotta corrispondente al precetto penale ma semplicemente una condotta socialmente riprovevole, lasciando poi al Giudice e all’arbitrio delle sue soggettive valutazioni, il giudizio di riprovazione sociale), accolta invece in ordinamenti antidemocratici.Se il principio è in se stesso pacifico, accade di frequente che i Magistrati d’accusa, di fronte a comportamenti fortemente riprovevoli che non corrispondono a figure di reato normativamente definite, cerchino di dilatare oltre il possibile la portata delle norme incriminatrici, ricorrendo a vere e proprie costruzioni. E’ il fenomeno della cosiddetta " supplenza giurisprudenziale" : il Giudice, di fronte all’inerzia del Legislatore che non interviene per criminalizzare comportamenti riprovevoli, si fa Legislatore a sua volta giustificando l’indebito intervento attraverso l’equiparazione sostanziale. Questo avviene quando la condotta non corrisponde al tipo legale di reato sia fortemente riprovevole, intaccando beni che la coscienza comune avverte come particolarmente importanti. Ho già parlato più volte, in questa rubrica, di un dato che si coglie con sempre maggiore frequenza: il bene culturale è oggi oggetto di una particolare, crescente riverenza, in quanto ad esso si attribuisce la duplice funzione, da un lato, di identificare le nostre origini e la nostra storia; dall’altro lato, di apportare un incremento sensibile ed economicamente valutabile della nostra ricchezza nazionale.Non sorprende pertanto che proprio nella materia dei Beni Culturali si assista ad un nuovo ed allarmante caso di supplenza giurisprudenziale: ci si rifiuta di riconoscere penalmente indifferente una condotta che non corrisponde al tipo legale di reato ma che è, oggettivamente, riprovevole. Di questa tendenza ho riscontrato recentemente più casi, ma un episodio che mi è capitato nella più recente esperienza professionale, merita di essere raccontato. Nel 1981 era stato compiuto un grosso furto d’oggetti culturali in una villa toscana, regolarmente ed immediatamente denunciato. Per alcuni anni le cose rubate non erano riapparse sul mercato quando, nel 1985, scorrendo il catalogo di una vendita Christie’s di New York, il figlio del proprietario derubato (nel frattempo deceduto) ritrovò un importantissimo dipinto sottratto al padre. Immediatamente, tramite un prestigioso Studio Legale italo-americano, venne avviata la procedura per il recupero dell’opera d’arte, che direttamente dai ladri o tramite un ricettatore, era stata esportata negli Stati Uniti, anche per ricavarne un più grosso profitto. L’istanza venne accolta e, alcuni anni dopo, gli eredi poterono recuperare il dipinto, successivamente (1997) venduto direttamente all’estero. La questione si pone in questi termini: la Legge sulla Tutela del patrimonio storico-artistico prevede, all’art. 66, il reato di " contrabbando artistico" : nel testo originario, novellato nel 1998, si punisce con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da lire 300mila a lire 4 milioni 500mila il comportamento di chi non presenti alla dogana il bene culturale che intende esportare (in pratica, è tale ogni cosa, proveniente dall’uomo, che abbia oltre 50 anni e che sia stata eseguita da un autore deceduto) ovvero la presenti " con dichiarazione falsa o dolosamente equivoca, ovvero nascosta o frammista ad altri oggetti per sottrarla alla licenza d’esportazione" .Dunque, il modello legale di reato è quello di un tipico reato di frontiera: la condotta punibile è nel fatto di esportare il bene culturale senza il preventivo assenso dell’Organo di tutela (l’Ufficio Esportazione). Certamente i proprietari derubati non erano responsabili della condotta illecita realizzata dai ladri o ricettatori che, clandestinamente, avevano esportato l’opera negli Stati Uniti. Ma esisteva, in capo ai proprietari derubati, l’obbligo di riportare in Italia il dipinto recuperato all’estero?Se si esamina l’intero corpo della Legge del 1939, non si trova traccia alcuna di un tale obbligo; tanto meno, poi, si trova traccia di un’equiparazione all’illecitata esportazione dell’omesso adempimento di un tale ipotetico obbligo. Ma la Procura di Firenze, venuta a conoscenza del fatto che i proprietari derubati avevano venduto all’estero il dipinto, sottratto 16 anni prima, non si è arresa di fronte all’assenza di una norma incriminatrice che riguardasse il caso concreto. La vendita all’estero era un fatto riprovevole, dal quale era conseguita la perdita, per il patrimonio storico-artistico italiano, di un’importante opera d’arte, ancorché la stessa non avesse formato oggetto di notifica, ai sensi dell’art. 3 della legge 1089.Quindi, la conseguenza (sottrazione dell’opera al nostro patrimonio culturale) parificava negli effetti il comportamento dei proprietari derubati a quello d’illecita esportazione. Di qui, il sequestro dell’opera ed un capo d’imputazione formulato al proprietario derubato, cui veniva contestata la violazione dell’art. 66 della legge 1089/39.E’ questa una vera e propria ipertutela del patrimonio culturale, che non si arrendeva di fronte all’inesistenza, nella nostra legge, di una norma incriminatrice riferibile alla condotta tenuta in concreto dall’imputato.Ho proposto, contro il decreto di sequestro, ricorso al Tribunale della Libertà e mi sono richiamato a quel principio di civiltà giuridica che non può mai soffrire eccezioni, quale che sia l’importanza del bene giuridico di cui si discute. Ed il Tribunale del Riesame di Firenze, con una splendida ordinanza, sapientemente motivata, mi ha dato ragione: il sequestro era inammissibile in quanto la parificazione all’illecita esportazione della omessa reimportazione era una vera e propria applicazione analogica della norma incriminatrice.

Autore: Fabrizio Lemme

Fonte:Il Giornale dell’Arte