I musei fanno ormai parte in modo organico delle strutture di servizio per l’impiego del tempo libero come le multisale, i team park, le discoteche, i villaggi turistici e gli shopping mall dei centri commerciali organizzati. Possiamo magari avere molto rincrescimento ma certo nessuna meraviglia, quindi, che i musei abbiano perduto ogni carattere auratico: niente più
Poi, per estensione, i monumenti museo, le città museo e il territorio museo con le relative combinazioni. Si va in una città museo a visitare un museo che, con slittamento tipologico, è collocato in luogo improprio da cui poi deriva una parte importante del suo fascino: secondario se si tratti di un palazzo antico o di un’ex centrale tecnologica. La prevalente funzione è sempre più quella del consumo e del turismo come sua forma specifica. Così ogni città di provincia sogna di costruire il proprio esoterico museo per incentivarle. Non sorprenderebbe quindi se i musei diventassero dei dipartimenti degli shopping center : per entrate nel nuovo Guggenheim Museum di Las Vegas si passa attraverso la hall-sala da gioco di un grande albergo.
Bisogna subito dire che nonostante la invasiva diffusione nel mondo quotidiano dell’arte visiva contemporanea i musei a essa dedicati sono una frazione assai piccola anche se significativa del fenomeno generale del museo dell’iperconsumo. Significativa, soprattutto, per il discorso che ci tocca da vicino e che ci riguarda: l’architettura del museo.
Il museo e in particolare i musei di arti visive e ancora più in particolare quelli di arte visiva contemporanea hanno dovuto certamente affrontare il problema della amplissima diffusione della nozione stessa di arti visive, le incertezze nella definizione del loro campo di competenze, le discussioni critiche sul tema dell’arte diffusa e della riproducibilità che si prolungano da più di un secolo, le relazioni con i temi della comunicazione e in generale la costitutiva instabilità dell’esperienza estetica contemporanea. Inoltre gli artisti sono via via divenuti più importanti dell’opera, poi si sono trasformati in creativi, nuova classe economica emergente, e a tutto questo si è prepotentemente accostato un nuovo modo di essere del museo nell’età dell’ideologia assoluta del mercato.
Il museo oggi sviluppa la cultura delle arti visuali o le Utilizza per il proprio autosviluppo istituzionale? E i suoi edifici sono al servizio delle arti o si servono di esse per mettere in primo piano le qualità plastico-visive dell’edificio in allineamento con la sua funzione turistica? Dobbiamo concludere che si sta avverando la previsione di Andy Warhol che negli anni’60 scriveva: " Tutti i musei diventeranno grandi magazzini e tutti i grandi magazzini diventeranno musei come sembra concludere anche la recente mostra viennese dal titolo I shop therefore I am?"
Q u e s t e connessioni, ormai ovvie, pongono con evidenza agli architetti un triplice problema: un’analisi delle condizioni delle arti visive come contenuto del proprio fare, un’interrogazione sulla sostanza stessa dell’architettura e una riflessione sulla relazione tra le due diverse pratiche artistiche. E’ necessario quindi riguardare come qualcosa di specialmente significativo ciò che si produce in quanto architetti quando il soggetto del lavoro sia il museo e in particolare il museo delle arti contemporanee.
(…) Shelling considerava l’architettura un’arte plastica vicina alla sartoria proponendo l’instabilità del panneggio come modello: un’idea che qualcuno oggi ha interpretato come modello dell’instabilità, dell’incompiutezza, della frammentarietà quale destino dell’architettura, siano costruzione, processi di messa in opera di materiali complessi, di memoria, volontà e desideri che si propongono con la precisione che fa di ogni soluzione un nuovo enigma. In particolare, è un’aggiunta alla costruzione ma un suo modo di essere messo in forma. Credo che, alla fine, dobbiamo quindi essere grati al tema del museo dell’iperconsumo che più di ogni altro ha messo in evidenza le contraddizioni più vistose dell’architettura dei nostri anni.
Autore: Vittorio Gregotti
Fonte:La Stampa