Salvatore SETTIS: Dibattito oggi all’Hermitage: ma il Museo ha un futuro?

Si discute oggi molto, e non solo in Italia, quale debba essere il ruolo dei musei, e più in generale del patrimonio culturale. Questa discussione, proprio perché avviene contemporaneamente in molti Paesi (a livello accademico, politico, giornalistico), e nell’ambito di tradizioni e istituzioni assai diverse di luogo in luogo, è difficile da afferrare nel suo insieme. Si possono però additare, in forma meramente elencativa, alcune domande che – pur nella diversità delle situazioni – si pongono in tutto il mondo, raggruppandole in cinque categorie: definizione, importanza, uso (o usi), proprietà, costi del patrimonio culturale.

Definizione: che cosa si può definire «patrimonio culturale»? La definizione dev’esser limitata avarie forme di «arte», o estesa fino ad includere oggetti rappresentativi della storia, della religione, della tecnologia, della produzione artigianale, dell’organizzazione sociale, agricola o industriale?

Importanza: qual è (o dovrebbe essere) il significato del patrimonio culturale nella società contemporanea, dominata dalla retorica della globalizzazione? Dobbiamo definirlo secondo standards differenziati di Paese in Paese, o invece cercare una definizione unica, valida dappertutto? Il «patrimonio culturale» di un Paese è solo quello che vi è stato prodotto (l’arte russa in Russia, quella italiana in ltalia), o dobbiamo cercare una definizione più onnicomprensiva?

Uso/usi: a che cosa serve il patrimonio culturale, e in particolare i musei? Sono un deposito di memoria storica e/o di identità culturale? Sono costitutivi della nozione di identità nazionale, o di subidentità locali, o appartengono all’umanità intera? Dobbiamo conservarli per il nostro piacere estetico? O in quanto informazione storica, «archivistica»? 0 per educare le generazioni future?

Proprietà: a chi spetta la proprietà del patrimonio culturale, comunque lo si voglia definire? Alla sfera Pubblica o a quella privata? O a entrambe? I poteri pubblici devono o non devono avere il potere di limitare il diritto dei proprietari privati in nome di un principio più elevato del mero diritto di proprietà? E come formulare un tal principio, come dargli sostanza giuridica?

Costi: tutelare e preservare il patrimonio culturale, e in particolare i musei, può essere assai costoso. Chi deve coprirne i costi? I visitatori paganti?
E se questi introiti non bastano (come accade quasi sempre), dobbiamo abbandonare musei e monumenti a un incerto destino? O dobbiamo coprire i costi del mantenimento a spese pubbliche? E se sì, perché?

Temi, lo abbiamo detto, dibattuti in tutto il mondo, ma che assumono oggi in Italia un rilievo particolare per almeno tre ragioni: primo, l’Italia si distingue a livello mondiale per la diffusione straordinariamente densa e capillare del patrimonio sul territorio. Nel nostro Paese, i musei contengono solo una piccola parte dei beni culturali, che sono viceversa sparsi in chiese, palazzi, piazze, case, strade, e disseminati nelle campagne e nel paesaggio.

Seconda ragione, l’Italia è il Paese in cui è nata la legislazione della tutela del patrimonio culturale: questa lunga storia comincia dall’Italia dei Comuni, si dipana attraverso gli Stati italiani preunitari (specialmente il regno di Napoli e gli stati del Papa), fino alla legislazione dell’Italia unita, che culmina nell’articolo 9 della Costituzione repubblicana, che prima al mondo inserì la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale fra i principi fondamentali dello Stato.

Terza e ultima ragione di attualità è lo stato attuale di crisi del settore, dopo la drastica riduzione di fondi del governo Berlusconi, e la speranza che il nuovo governo voglia invece passare ad una politica di investimenti, come intende fare il nuovo ministro dei Beni culturali (e vicepremier) Francesco Rutelli.

Ma è opportuno ricordarsi che la prospettiva sul destino dei musei e del patrimonio culturale è oggi problematica in tutto il mondo, inquinata com’è dalla tendenza a considerare il patrimonio culturale come una risorsa economica da sfruttare. È per questo che, con paradosso solo apparente, da un lato quasi ogni Paese si è ormai dotato di una qualche legge di tutela (in molti casi, solo negli ultimi decenni), dall’altro lato si registra, anche nei Paesi di più antica tradizione come l’Italia, la spinta irresponsabile ad alleggerire le norme di tutela per consentire un’indiscriminata commercializzazione.
Si intreccia con questo processo un altro sviluppo, che possiamo chiamare l’istituzionalizzazione del patrimonio culturale. Sempre più spesso, oggetti d’arte che per secoli sono stati nelle piazze e nelle chiese vengono spostati nei musei (basti ricordare a Roma il Marco Aurelio del Campidoglio, a Firenze il Perseo tolto dalla Loggia dei Lanzi, la Porta del Paradiso estirpata dal Battistero).

Si tocca qui con mano uno dei paradossi della tutela: dislocazioni come queste (e mille altre) sono motivate da ragioni di conservazione (talvolta inconfutabili), ma al tempo stesso comportano un gesto distruttivo, che incide profondamente sul contesto storico di un monumento o di una piazza; né la sostituzione con copie è un rimedio pienamente efficace.
Dello stesso segno è la musealizzazione di interi edifici, come la Cappella degli Scrovegni a Padova, che dopo un eccellente restauro è ora visibile solo a gruppi, con un tempo massimo di visita (15 minuti) men che insufficiente a dare anche solo uno sguardo sommario allo straordinario ciclo di Giotto. Di fatto, per tutelare meglio la Cappella si è finito col renderla invisibile: il solo modo per visitarla in santa pace e di recarsi al museo Otsuka nell’isola giapponese di Shikoku, dove ne esiste un’ottima replica in scala 1:1.
Al tempo stesso, intere città (per esempio Venezia) vengono presentate come «città museo», e si parla di un Museo Italia. Definizioni introdotte con ottime intenzioni, ma che hanno l’effetto di accreditare la separatezza del «mondo dell’arte» (confinato nei musei) dal mondo «reale», nel quale debbano valere tutt’altre regole.

Molto meglio sarebbe che, anziché assimilare il palazzo, la chiesa, la città a un museo, ci ricordassimo che è vero il contrario. E cioè che la città (anche se densissima di edifici monumentali) non è un museo, ma la casa dei cittadini; che le chiese servono al culto, i palazzi ad abitarvi. Che Giotto concepì i suoi affreschi per un’osservazione prolungata, non per un rituale turistico. Che i musei sono non spazi separati, bensì proiezioni delle rispettive città, e che dal tessuto urbano, e non da un’astratta idea di «museo», essi traggono legittimazione, senso e forza.
È sbagliato e pericoloso dimenticare che l’istituzione-museo è assai recente. Ha poco più di duecento anni di vita, e la sua espansione a livello planetario ne ha molti di meno. Nulla garantisce che i musei debbano ancora esistere fra cento, duecento, trecento anni: essi sono una formazione storica che, come altre, può a un certo punto perdere vitalità. E come non accorgersi che i musei oggi si stanno evolvendo, in modo più o meno visibile, verso altre forme, che talvolta somigliano a uno shopping center o a luoghi di attrazioni e di intrattenimento?

Non dobbiamo dare per scontata l’istituzione-museo, limitandoci a studiarne la storia o gli allestimenti, ma domandarci quale oggi possa esserne il senso, rispetto alle nostre società. Domanda non banale, resa più acuta e urgente da fenomeni recenti e recentissimi: la drammatica crescita del numero dei musei in tutto il mondo e dei loro visitatori; l’incerto rapporto fra collezioni permanenti e la pulsione a una frenetica girandola di mostre effimere; la professionalizzazione crescente degli addetti ai lavori; la tendenza a utilizzare strumentalmente i musei (e più in generale il patrimonio culturale) per operazioni d’immagine (aziendale o politica); infine, lo stesso estendersi dell’istituzione-museo da varie forme d’arte a qualsiasi altro oggetto, dall’industria agli oggetti d’uso.

Molti di questi sviluppi sono non solo inarrestabili, ma positivi: ma essi hanno un effetto cumulativo, che sommandosi ad altri fattori – per esempio le retoriche del mercato come universale principio salvifico, o le realtà della politica locale – può condurre in tempi brevi a una crisi assai più profonda di quella che oggi cominciamo a vedere.
E una ragione in più, io credo, per guardare con rinnovata attenzione a quanto accade in Italia. Per ridare all’antico e consolidato modello italiano della conservazione contestuale del patrimonio culturale lo smalto e lo slancio richiesto dalle circostanze, dalla nostra responsabilità verso le nuove generazioni, dal dovere degli Italiani di continuare a proporre quel modello all’attenzione di tutto il mondo.

Ricordandoci che laverà, la grande «redditività» del patrimonio culturale non è nella sua commercializzazione, e nemmeno nel turismo e nell’indotto che esso genera, bensì in quel profondo senso di identificazione, di appartenenza, di cittadinanza, che stimola la creatività delle generazioni presenti e future con la presenza e la memoria del passato. Su un tessuto monumentale, museale e paesaggistico di tanta vari età e ricchezza come il nostro è doveroso costruire un sistema di relazioni (a cominciare dalla ricerca sul campo e dalla necessaria, capillare informazione ai cittadini), che faccia risorgere nelle coscienze la consapevolezza della nostra storia e i valori simbolici ad essa collegati.

E’ necessario vincere il superficiale economicismo che svendendo la sostanza profondamente civica dei beni culturali produce una crescente usura dei valori simbolici che li permeano e che cementano la società, incrementandone la capacità di rinnovarsi e di affrontare le sfide del futuro. Solo così il nostro patrimonio potrà dispiegare ancora la sua funzione civile, sempre più essenziale di fronte alle crescenti sfide del futuro.

 

Autore: Salvatore Settis

Fonte:La Repubblica