LA QUARANTINA DI OPERE ESPOSTE AL PIANTERRENO DI PALAZZO BARBERINI CHIAMANO IN CAUSA LE METAFORE E LE ALLEGORIE DEL TEMPO IN EPOCA BAROCCA. SPAZIANDO DALLA VANITAS AL SOGNO.
Il tempo, enigma e mistero dell’esistenza che, suo malgrado, ne è tragicamente innervata, sfugge, con implacabile puntualità, a ogni reiterato tentativo di imbrigliamento: l’ossessivo meccanismo giaculatorio dell’orologio, e la lambiccata codifica spaziale sussidiata da simboli, metafore e allegorie, ne sono ingegnosi esempi. Al pianterreno di Palazzo Barberini si inaugura un nuovo, grande spazio (otto sale completamente restaurate e rinnovate) destinato alle esposizioni temporanee, con la mostra Tempo Barocco ‒ curata da Francesca Cappelletti, neodirettrice della Galleria Borghese, e da Flaminia Gennari Santori, direttrice delle Gallerie Nazionali Barberini e Corsini ‒, che ha il pregio di sollecitare nel riguardante un’indagine e una riflessione sulla concezione e sulla percezione del tempo, sebbene circoscritte alla visione estetica del Seicento Barocco: una visione pregna di teatralità e di sognante dinamismo plastico.
La suddivisione didascalica in cinque sezioni delle circa quaranta opere in mostra (realizzate, in prevalenza, da artisti residenti a Roma, e provenienti, in buona parte, da musei prestigiosi quali ‒ per fare solo qualche esempio ‒ Gli Uffizi, il Museo del Prado, la National Gallery di Londra, il Kunsthistorisches Museum di Vienna) è cadenzata dalla sapiente disposizione di orologi preziosi e ricercati, congegnati da rinomate manifatture dell’epoca come la bottega dei fratelli Campani a Roma. Ci avventuriamo tra i capolavori con piglio filosofico, fomentati dai pannelli di sala, alla ricerca di un simbolo, di un’allegoria, di una metafora che impigliasse tra i grumi della tela l’inafferrabile, inquietante protagonista.
Con la circolare sincronicità delle quattro età dell’uomo, il caravaggesco Valentin de Boulogne allegorizza il mistero in una tenebrosa scena di taverna; in un olio pensoso e sensuale di Guido Cagnacci una giovane donna seminuda attorniata dai classici segni dell’impermanenza volge lo sguardo all’uroboros, mitico simbolo d’eternità; ecco, più oltre, le eleganti e minuziose nature morte del tedesco Christian Berentz fissate, vanitas vanitatum, un istante prima di venir divorate dall’incalzante oscurità che le attornia. Ma l’opera che più ci ha attratti è la scultura in marmo nero di Alessandro Algardi, titolata Allegoria del sonno, uno dei pezzi più suggestivi dell’intera mostra. Nel sonno, nel sogno ‒ leggiamo nella metafora del fanciullo dormiente ‒ accediamo a uno spazio e a un tempo differenti (lo spazio e il tempo ‒ la scienza lo riconosce, l’arte lo evidenzia – sono variabili mutuamente dipendenti): sperimentiamo l’enigma, sfioriamo il mistero.
Fonte: www.artribune.com, 24 giu 2021