ROMA. Artemisia Gentileschi e il suo tempo.

Nata da un’idea di Nicola Spinosa (curatore della sezione napoletana), la mostra “Artemisia Gentileschi e il suo tempo” si presenta come un viaggio nell’arte della prima metà del XVII secolo seguendo le tracce di una vera, grande donna.
Una pittrice di prim’ordine, un’intellettuale, non solo padrona di una tecniche pittorica sublime, ma capace di declinarla secondo le esigenze dei diversi committenti e trasformarla dopo aver assorbito il meglio dai suoi contemporanei, così come dagli antichi maestri.
Promossa e prodotta dalla Sovrintendenza Capitolina e da Arthemisia Group, organizzata da Zètema, presenta 95 opere provenienti da 80 diversi musei, gallerie e collezioni private ed è ospitata a Palazzo Braschi fino al 7 maggio 2017 (catalogo Skira).
“E’ una giornata particolare” dice facendo gli onori di casa il Sovrintendente Claudio Parisi Presicce, “perché oggi apriamo con Artemisia uno spazio nuovo, di circa 900 mq, utilizzato per la prima volta, destinato alle mostre temporanee”. Per una rassegna che non si ferma alla biografia, ai luoghi comuni della cronaca, ma indaga la personalità di un’artista che è entrata in rapporto col mondo dell’arte del suo tempo, da cui è stata influenzata e che ha influenzato. “Si è parlato di Artemisia per tirar fuori le sue qualità e i suoi valori pittorici, ma anche per allargare il confronto agli altri – precisa il professor Spinosa – per far emergere le sue qualità in rapporto con il padre, con Simon Vouet, a Firenze nell’ambiente galileiano, a Venezia con Paolo Veronese, a Napoli dove rimase fino alla morte, con Battistello Caracciolo, con Ribera, Stanzione, cosa che le mostre precedenti non hanno fatto”.
Dei 95 dipinti in mostra, 29 sono di Artemisia. Gli altri sono di artisti che hanno stabilito un dialogo, un confronto o scontro con lei. E loda la generosità dei collezionisti privati da cui vengono molte opere, a differenza di certi musei statali restii ai prestiti. Ma attenzione perché le opere non sono tutte presenti. Vanno e vengono. Per esempio “Giuditta decapita Oloferne” del 1617 del Museo di Capodimonte non c’è ancora, arriverà a febbraio, mentre “Susanna e i vecchioni”, che viene dalla Germania, sarà in mostra solo fino a Marzo.
L’esposizione ha inizio con un doppio autoritratto, “Autoritratto come suonatrice di liuto”, un olio su tela del 1617 – 1618 dal museo di Hartford e un “Autoritratto” a matita su carta azzurrina del 1613 che viene da una collezione privata londinese. Ma il capolavoro che segna il debutto è “Susanna e i vecchioni” dipinto a Roma nel 1610. Ha 17 anni, è autodidatta e mostra una capacità straordinaria di raccontare una storia in modo femminile, di dipingere un nudo naturalistico in piena controriforma,
Accanto un’altra opera del periodo romano di poco successiva, “Giuditta e la fantesca Abra” degli Uffizi, dal forte effetto drammatico, con quel volto di profilo che non ha uguali. Poche opere hanno tanta potenza evocativa. E’ degli esordi a Roma anche la “Danae” del 1612, un piccolo olio su rame che viene dal Museo di Saint Louis. E prosegue in crescendo fino ai quadri degli ultimi anni realizzati a Napoli (in collaborazione con Bernardo Cavallino “Loth e le figlie” del Museo di Toledo, Ohio, e con Onofrio Palomba “Susanna e i vecchioni” della Pinacoteca Nazionale di Bologna), seguendo un duplice filo conduttore, da un lato le diverse fasi artistiche a partire dasquo;apprendistato nella bottega del padre, dall’altro il continuo andare da un luogo all’altro. Da Roma a Firenze, Venezia, Londra, Napoli.
Un personaggio simbolo, oggi più che mai, Artemisia Gentileschi (1593 – 1653), conosciuta solo con il nome di battesimo, l’antesignana dell’affermazione del talento femminile nell’arte, espressione di libertà e indipendenza contro ogni sopruso. E’ la primogenita del pittore Orazio Gentileschi, nota al grande pubblico per essersi ribellata alla violenza dello stupro subito giovanissima da parte del pittore, collega del padre, Agostino Tassi. Una storiaccia fra violenze e gelosie di mestiere, una biografia romanzata che ha rischiato di oscurare i suoi meriti. I documenti e le lettere usciti recentemente dagli archivi ci restituiscono un’immagine più sfaccettata. Quella di una donna e di un’artista che lotta per affermarsi nell’unico modo possibile in un mondo dominato dagli uomini. Sappiamo che non era una bambina quando conosce Tassi, che gli fu vicino per quasi un anno. Il processo, poi solo tre mesi di esilio per il colpevole e alla fine Artemisia sposa Pierantonio Stiattesi.
Francesca Baldassarri, curatrice della sezione fiorentina, sottolinea come la presenza di questa “donna d’acciaio” a Firenze sia legata alla sua biografia, non poteva rimanere a Roma. Durante i quasi otto anni trascorsi nella capitale del granducato, Artemisia, lontano dal padre, acquisisce un proprio stile originale. Lavora per la corte di Cosimo II e ama furiosamente un suo coetaneo, il nobile Francesco Maria Maringhi a cui scrive lettere appassionate, lei che era analfabeta. Allora impara a leggere e scrivere, frequenta il mondo della cultura, partecipa ai balli di corte. Suo mecenate e protettore Michelangelo Buonarroti il Giovane, nipote del genio (suo il soffitto di Casa Buonarroti), che la mette a contatto con i pittori fiorentini, con le grandi famiglie, con Galileo. Per Laura Corsini, moglie di Jacopo Corsi l’inventore della Camerata de’ Bardi, dipinge la “Giuditta”, ora a Capodimonte, gemella dell’altra oggi agli Uffizi, per Galileo l’”Aurora” in mostra, di collezione privata.
Temi colti e lei si rappresenta come suonatrice di liuto. E’ la prima donna ad essere accolta all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze fondata da Vasari. Accanto nella stessa sala i pittori che operano a Firenze Giovanni Bilivert, Francesco Furini, Giovanni Martinelli, Felice Ficherelli in un “legame bivalente di reciproco scambio”, di dare e avere.
Propone una nuova lettura della pittura di Artemisia, l’interesse per le vicende dello stupro hanno portato fuori strada, anche Judith Mann che ha curato la sezione romana. Artemisia “non è una pittrice camaleonte, non ha scimmiottato gli altri. Quando opera al meglio è una grande pittrice drammatica e narrativa, una pittrice di narrazione e di sfumature”.
Dopo Firenze il ritorno a Roma nel 1620. Un rientro non propriamente trionfale, anche se vi ritorna da donna sposata, abita a via del Corso e può permettersi dei servitori. In questo periodo il pittore che esercita la maggiore influenza su di lei è Simon Vouet che la ritrae in un dipinto, ma ha rapporti anche con altri artisti. Nella sezione dedicata agli anni 1620 -1627 sono presenti opere di Nicolas Regnier, Charles Mellin, Vouet, Giuseppe Vermiglio. E del padre Orazio “Sibilla” dal Museo di Houston, mentre di Artemisia sono in mostra una serie di ritratti che non ti aspetti: “Santa a mezzo busto” di collezione privata, “Ritratto di gonfaloniere” dalle Collezioni comunali d’arte di Bologna e “Ritratto di dama con ventaglio” del Sovrano Militare ordine di Malta.
Artemisia verso il 1638 si trasferisce a Londra (era a Napoli) per raggiungere il padre Orazio malato che aveva lavorato per il duca di Buckingham e poi per Carlo I Stuart e per la regina Henrietta Maria. Un viaggio misterioso, vi rimane poco più di un anno, e torna in Italia subito dopo la morte del padre. Era stata preceduta dalla sua fama e da un dipinto raffigurante “Tarquinio e Lucrezia” andato disperso. Delle tele attribuite a Artemisia registrate negli inventari reali è identificabile solo l’”Allegoria della Pittura” di proprietà della Royal Collection. Le altre sono andate perdute alla vendita dei beni della corona dopo la decapitazione di Carlo I nel 1649. In mostra di questo periodo il bellissimo “Loth e le figlie” di Orazio Gentileschi dal Museo di Bilbao e di Artemisia “Cleopatra” dalla Galerie G. Sarti di Parigi.
Lungo, importante, intenso il periodo trascorso dalla pittrice a Napoli dove giunge, lasciata Venezia e dopo una breve sosta romana, nel 1629 su invito del viceré duca di Alcalà che era stato ambasciatore presso la Santa Sede, suo committente e collezionista. E qui incontra artisti che portano avanti una riforma del naturalismo caravaggesco, del calibro di Stanzione, Ribera, Battistello Caracciolo. E Domenichino chiamato a Napoli a decorare la cappella del tesoro dei quaranta patroni della città. Che ne aveva bisogno, nel 1631 c’era stata l’eruzione del Vesuvio, poi Masaniello e la peste, ricorda fra il serio e il faceto il professor Spinosa, studioso e napoletano doc. E qui realizza insieme a Stanzione una serie di tele su incarico del viceré per il Buen Retiro di Madrid.
Con Stanzione, Ribera e altri tre tele per il duomo di Pozzuoli, restaurato dopo l’eruzione. E si avvale della collaborazione del giovane Bernardo Cavallino e di Onofrio Palomba. L’artista anche nelle opere degli ultimi anni confermava il mito, oggi più che mai attuale, di essere capace di imporsi in un ambiente come quello delle arti che sarebbe stato ancora a lungo dominato dalla prevaricante presenza della sola figura maschile. Ma sarà la sua vita travagliata, fra amanti, debiti, nuove case e nuovi amici, da Roma a Firenze, quindi di nuovo a Roma per passare a Venezia, a Londra, a Napoli dove rimane venti anni, ad attrarre generazioni di appassionati d’arte e non solo.

Info:
Museo di Roma Palazzo Braschi, ingressi da Piazza Navona, 2 e da Piazza San Pantaleo, 10 – Roma.
Orario: da martedì a domenica 10.00 – 19.00.
Giorni di chiusura: chiusura: il lunedì e 25 dicembre, 1 gennaio e 1 maggio.
tel. 06 0608, www.museidiroma.it e www.arthemisia.it

Autore: Laura Gigliotti

Fonte: www.quotidianoarte.it, 30 nov 2016