Musei quale futuro?

All’indomani dell’approvazione della " Bassanini Due" , legge tesa alla semplificazione della pubblica amministrazione, occorre riflettere sulle poche righe, tanto laconiche quanto travolgenti, dedicate ai musei statali, che attribuiscono al Governo il potere di trasferirne la gestione alle regioni, alle province o ai comuni.La norma non figura nel disegno di legge originariamente proposto dal Governo: è stata inserita nell’articolato a seguito dell’ordine del giorno n. 9/2564/2, – presentato alla Camera dei Deputati nella seduta del 29 aprile scorso dagli Onorevoli Corsini, Novelli, Frattini, Di Bisceglie, Grimaldi, Sabattini, Bielli, Maselli, Boato, Pistelli, Massa, Veltri, Cerulli, Irelli, Migliori, Lumia.Il Governo cosi ha dovuto accollare nell’articolato posto in votazione con ricorso alla fiducia un emendamento che è l’attuale comma 131; ma il testo, che inizialmente prevedeva un obbligo per il Governo stesso ad operare il " trasferimento della gestione" , ora appare recepito in forma attenuata, con " può trasferire ecc." .Per valutare la portata della norma, ritengo che l’esame del testo della raccomandazione del 29 aprile offra un’autorevole chiave di lettura. Vi si dice che " preso atto che i compiti di tutela dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico sono… esclusi" dall’ipotesi di conferimento alle regioni e agli enti locali (vedasi la legge " Bassanini Uno" ), la Camera " impegna il Governo a emanare entro nove mesi… decreti legislativi volti a conferire alle regioni e agli enti locali compiti e funzioni di amministrazione, gestione dei musei, nonché dei beni culturali e del patrimonio storico-artistico presente sul territorio, stabilendo altresì che per tali compiti e funzioni regioni ed enti locali possano avvalersi di soggetti privati" .In sostanza, si è definito un asse fra gli organismi rappresentativi delle regioni e dei comuni, da un lato, e un gruppo politicamente rappresentativo di deputati, dall’altro, il quale non ha accettato che l’importante complesso normativo approvato dalle Camere legislative con ricorso al voto di fiducia eludesse il problema della definizione dei poteri delle regioni e degli enti locali in materia di beni culturali, problema che si trascina da vent’anni. Se si lascia allo Stato la tutela – questa sembra essere la posizione – almeno si diano a regioni ed enti locali concreti poteri di gestione dei musei ora statali.La vicenda mi ha fatto venire in mente la celebre Deposizione dell’Antelami nel Duomo di Parma, ove ha una straordinaria evidenza la partita a dadi per l’aggiudicazione dell’inconsutile veste di Cristo. È infatti estremamente difficile – si pensi al patrimonio archeologico, ma non solo – decidere in nove mesi come e perché dei musei statali diventino regionali, provinciali e comunali: su questo manca qualsiasi riflessione pubblica, qualsiasi progetto, qualsiasi garanzia sul perseguimento di obiettivi di validità culturale e di pubblico interesse, mentre l’ammissione che la gestione potrebbe avvenire solo con forme di privatizzazione desta molti sospetti.Ma è il caso di procedere per gradi.Credo che la dimensione delle " autonomie" sia inscritta nell’identità storica del nostro Paese ben più profondamente della dimensione dell’ “unità” statale, perché il centralismo amministrativo è proprio di questi ultimi centovent’anni: ben poco, rispetto alla nostra lunga storia. L’unita dello Stato, poi, che personalmente ritengo un valore da non perdere, non può dirsi d’altra parte compiuta se non quando abbia adeguatamente valorizzato la dimensione locale dei molti fenomeni e valori della vita sociale; tra questi è certamente la ricchissima stratificazione, per aree e per epoche, di fenomeni antropologici, come i dialetti e la produzione artistica, che rende unico il nostro Paese.Nel caso dei musei e delle biblioteche di enti locali – depositari di una consistente porzione della memoria nazionale – la Costituzione (art. 117) affidò alle costituende unità amministrative regionali il molo di organo preposto all’opera di promozione e coordinamento delle ricche e variegate realtà locali. In particolare la Costituzione stabilisce su tale materia la competenza legislativa propria delle Regioni, sia pure circoscrivendo tale potestà " nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato.Le competenze rimaste allo Stato, tuttavia, (soprattutto dopo il Dpr 616/1977) sono state esercitate in modo non adeguato allo sviluppo del Paese, per l’incapacità clamorosa di esercitare a livello nazionale poteri di indirizzo e di rafforzamento di quegli organismi periferici, come le soprintendenze, che sono ormai da quasi un secolo i più vicini alla realtà territoriale locale e ai cittadini. D’altra parte, anche il tentativo di promuovere il ruolo delle Regioni nella tutela dei " beni culturali di interesse locale" è risultalo inadeguato alle prescrizioni del dettato costituzionale, perché l’azione regionale si è troppo spesso ridotta ad essere (almeno per le regioni più ricche) meramente regolatrice del trasferimento di fondi agli enti locali. Inoltre, le procedure di valutazione dell’impatto ambientale sono rimaste di fatto inapplicate.Il problema di fondo che oggi si pone. tuttavia, non è quello della capacità delle regioni o dei comuni di dotarsi di strumenti organizzativi adeguati.La novità è che non ci si interroga più sugli obiettivi della tutela, mentre sono sempre più numerosi coloro i quali ritengono comunque urgente la soppressione delle soprintendenze statali o almeno la devoluzione alle regioni o agli enti locali, oltre che dei musei statali, anche delle competenze nella tutela, incuranti del sovrapporsi in un unico livello istituzionale delle posizioni di controllore e di controllato; un’altra parte delle funzioni delle Soprintendenze, invece, potrebbe essere assolta, secondo un’analoga corrente di pensiero, direttamente dall’imprenditoria privata e la raccomandazione al Governo del 29 aprile è in questo senso estremamente chiara.Non era finora mai accaduto – neppure per la vituperata vicenda degli oltre 600 miliardi dei " giacimenti culturali" (finanziaria 1986, art. 15) – che la gestione statale dei beni culturali venisse così duramente messa in discussione da uno schieramento parlamentare variegato e trasversale, come avviene ormai da due anni. Imputati non sono gli archivi o le biblioteche; indire turismo, musica e spettacolo ancora non sono nelle competenze di un ministero " per i beni e le attività culturali" e su questo fronte solo negli ultimi mesi il Governo sta tentando di tracciare un disegno. Alla sbarra si trovano invece i musei e soprattutto l’azione delle soprintendenze per i beni ambientali e architettonici, se e in quanto il loro lavoro non venga a svolgersi con celerità e tempismo, almeno dal punto di vista delle forze imprenditoriali interessate alla trasformazione del territorio a fini produttivi.D’altra parte ciò accade in un momento di rischio per l’occupazione e, soprattutto, di cruciale innovazione in tutti gli aspetti istituzionali pubblici. È dunque importante che la tutela e la promozione degli immensi valori culturali storicizzati, di cui il nostro paese è depositario (nelle opere d’arte, come negli assetti urbanistici), non resti ai margini di questo processo.Credo che in questo difficile passaggio occorra far lavorare la memoria storica, come ha fatto su questo stesso giornale Vittorio Emiliani il 12 novembre 1995, nei giorni in cui l’abolizione della competenza statale nella tutela dei beni culturali e ambientali era a un passo dal compiersi. Ma occorre anche progettare un futuro che sia rispondente ai fenomeni storici di lungo periodo propri del nostro Paese. Per questo è indispensabile rigettare la logica della spartizione e adottare un metodo, proporsi dei principi che evitino di abbandonare l’attività legislativa a una cieca mediazione fra le lobby. Ritengo che, riguardo al " comma 131" , alcuni di tali principi possano essere i seguenti.Occorre anzitutto, dare un senso ad espressioni come " trasferimento della gestione" , la cui sommarietà, riferita a musei statali, ricorda da vicino la rozzezza dell’art. 47-quater della legge 85/ 1995. Gestione significa direzione? Ma allora perché tanti musei civici in Italia giacciono senza direttore professionale? Oppure significa gestione amministrativa e della vigilanza? E quale garanzia di autonomia, in tal caso, avrebbe il direttore rispetto all’assessore, quale ruolo rispetto alle risorse umane e finanziarie affidategli? Quali risorse economiche e strumentali aggiuntive si ritiene possano porre in campo regioni e enti locali, se non si modificano le loro regole di funzionamento?Occorre chiarire, preliminarmente a ciascun provvedimento attuativo del " comma 131" , quale vantaggio effettivo deriverebbe da esso per l’equilibrato rapporto tra fruizione e conservazione dei beni culturali interessati. Ciò rende necessario riaprire la riflessione sugli obbiettivi della tutela, evitando che la scelta degli strumenti preceda l’individuazione delle finalità.Occorre sempre chiarire, caso per caso, i termini di compatibilità effettiva tra la finalità di lucro – che è caratteristica ineludibile dell’impresa, pubblica come privata – e l’espletamento di funzioni tipicamente pubbliche, quando soggetti imprenditoriali intervengano nella gestione dei musei.Non ci si deve nascondere che il " comma 131" è solo il segno che il legislatore considera per ora ai musei, ma sembra protendere lo sguardo complessivamente verso le funzioni delle soprintendenze statali. Anche qui occorre tener fermi alcuni principi di metodo, tenuto conto dell’impatto comunque notevole che potrebbe avere nei prossimi anni l’applicazione estensiva del concetto di " sussidiarietà" .La ripartizione delle competenze fra stato e regioni deve seguire – e non precedere – l’individuazione degli obiettivi generali di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale che tutte le componenti della Repubblica debbono concorrere a realizzare.L’indispensabile cambiamento degli assetti istituzionali, inclusa la riforma del Ministero per i Beni culturali e ambientali, deve essere ispirato da tali obiettivi, evitando il rischio che la ristrutturazione degli organigrammi e dei poteri risponda a finalità a essi estranee.Non si deve dilapidare il patrimonio unitario giustamente nazionale, delle competenze professionali e della documentazione relativa al territorio. Ma occorre anche – con un processo ampio di rinnovamento delle strategie formative e delle regole di reclutamento degli addetti – riabilitare i soggoli pubblici locali alla partecipazione non marginale all’azione di tutela, che, comunque, lo Stato non può assicurare da solo. Resta il fatto che nei servizi per i beni culturali esiste attualmente in Italia un grave squilibrio tra le punte di eccellenza scientifica, tecnica, di ricerca e la mancanza di una capillare rete di distribuzione di tali competenze professionali sul territorio.I vincoli di tutela, soprattutto quelli su complessi di carattere monumentale e urbanistico, debbono evolvere, diventando documenti ricognitivi della " capacità di portata" e della " vocazione d’uso" dei beni tutelati: come tali, dovrebbero diventare propositivi (sia pure in termini generali) e non soltanto impeditivi: ne risulterebbe promossa la necessaria integrazione fra tutela e pianificazione urbanistica. in assenza della quale i conflitti di interessi pubblici e privati, insorgenti nella fase ormai realizzativa delle modifiche territoriali, divengono devastanti.La programmazione dettagliata degli interventi di ricerca, documentazione, conservazione e valorizzazione, per la parte di competenza dello Stato, è funzione che deve essere trasferita dall’amministrazione ministeriale centrale ad organismi di concertazione a livello regionale, nei quali tutti i soggetti pubblici responsabili dei beni culturali possano concordare tra di loro indirizzi e piani attuativi, fino alla progettazione coordinata e all’esecuzione delle opere o forniture di servizi, eventualmente ricorrendo alla indizione congiunta delle gare d’appalto.A costo di trarre ispirazione dalle sapienti leggi di fine Ottocento, occorre semplificare l’attuale gestione contabile pubblica nel settore dei beni culturali, per renderla adeguata alla realizzazione di progetti di prevalente funzione culturale, spesso oggi ingiustamente equiparati a opere pubbliche di carattere strumentale o economico.

Autore: Pietro Petraroia