Max REMONDINO. Gli espressionisti.

Angoscia e pessimismo, deformazione della realtà fino al caricaturale: questa corrente (che si sviluppò soltanto in Germania) ha lasciato un segno profondo e molti capolavori.

Nella Storia della bruttezza (pubblicata due anni fa), Umberto Eco, scrittore e semiologo, ricordava che «in quasi tutte le teorie estetiche, almeno dalla Grecia ai giorni nostri, è stato riconosciuto che qualsiasi forma di bruttezza può essere redenta da una sua fedele ed efficace rappresentazione artistica». E citava Aristotele, che parla della «possibilità di realizzare il bello imitando con maestria ciò che è repellente», e Plutarco, secondo il quale «nella rappresentazione artistica il brutto imitato rimane tale ma riceve come un riverbero di bellezza dalla maestria dell’artista». Nel vastissimo repertorio di immagini che illustrano il volume di Eco figurano alcuni dipinti di George Grosz, Otto Dix, Egon Schiele, e di altri rappresentanti della scuola espressionista, che riscosse enorme successo nei primi anni del secolo scorso. I rappresentanti di questa corrente artistica non erano eredi di Caravaggio o di Velázquez, che nei secoli precedenti avevano preso a modelli i poveri e i derelitti, e neppure di Hieronymus Bosch, che si affidava alle sue bizzarre allucinazioni per descrivere l’Inferno.

L’Espressionismo era altra cosa: deformazione della realtà, per accentuarne i valori emozionali ed espressivi. Come avevano insegnato Van Gogh e Gauguin, Ensor e Munch, considerati dalla critica gli anticipatori del movimento. Che nacque nel 1905, quando quattro studenti della facoltà di Architettura – Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Karl Schmidt-Rottluff e Fritz Bleyle – fondarono a Dresda il gruppo Die Brucke, il Ponte. Il nome fu proposto da Schmidt-Rottluff, il quale spiegò la scelta sostenendo che i numerosi significati possibili non costituivano un programma, ma offrivano l’idea di una transizione «da una sponda all’altra». Tutto l’Espressionismo rappresentò una transizione, sia per i temi proposti che per gli artisti che vi aderirono. La Belle Époque era tramontata, e nell’intera Europa (in Germania più che altrove) si respirava un’aria poco rassicurante. Gli incubi di una guerra ormai imminente erano avvertibili. Dominavano l’angoscia e il pessimismo, soprattutto fra gli artisti, ad eccezione di quelli (come i futuristi) che vedevano in un eventuale conflitto la «sola igiene del mondo». Gli espressionisti esternavano questi sentimenti drammatici. La loro ‘deformazione’ puntava in quella direzione. Volevano rappresentare le paure, il disgusto, il rifiuto di una società alla quale ritenevano di non appartenere. Per molti di loro l’Espressionismo fu soltanto un autobus che li condusse altrove. Sei anni dopo la nascita del gruppo di Dresda, alcuni artisti fondarono a Monaco di Baviera una rivista intitolata Der Blaue Reiter, Il cavaliere azzurro. I due curatori principali erano Vassily Kandinsky e Franz Marc. Kandinsky – pur non facendo parte del Brucke – fu un perfetto interprete del ‘Ponte’: nel 1913 (questa è l’opinione della maggior parte dei critici, anche se la data sul disegno è 1910), con il Primo acquerello astratto, sancì la nascita dell’Astrattismo. Del gruppo di Monaco fecero parte Gabriele Munter, Alexey von Jawlensy, Marianne von Werefkin, August Macke e (solo di passaggio) lo svizzero Paul Klee.

CONCETTO STRAPAZZATO. La difficoltà di identificare con esattezza gli artisti del gruppo e di inserirli in un recinto chiuso ha indotto molti critici di oggi ad abbandonare il concetto di Espressionismo, troppo «strapazzato dalla varietà di significati attribuitigli», sostiene Dietmar Elger, autorevole storico dell’arte. In un saggio del 1925, due pittori (El Lissitzky e Hans Arp) scrissero che altre correnti artistiche (come il Cubismo e il Futurismo) furono macinate «nel polpettone dell’Espressionismo, l’hamburger metafisico».
Un hamburger cucinato e condito quasi unicamente da artisti tedeschi. Un movimento che (a differenza delle altre scuole dell’epoca) non superò mai i confini di una Nazione. Leopold Ziegler, filosofo dell’Idealismo, spiega (senza alcun riferimento diretto) perché il movimento si sviluppò soltanto in Germania: «L’uomo tedesco rappresenta l’essenza della natura demoniaca. Privo di pace, eternamente prigioniero del demone vorticoso dell’incessante divenire, non ha, rispetto agli altri popoli, la coscienza di ciò che esiste»». Max Pechstein (che aderì alla Brucke) dettò una specie di manifesto che nello stile (ma non nei contenuti) poteva ricordare quello scritto da Marinetti per i futuristi: «Lavorare! Ebbrezza! Decerebrazione! Masticare, divorare, inghiottire, ingarbugliare! Gioioso dolore del parto! Esplosione del pennello, possibilmente sfondamento delle tele. Calpestare i tubetti dei colori».
Norbert Wolf, autore di un saggio sull’Espressionismo, commentando le parole di Pechstein, sostiene che «la provocazione e l’insurrezione dei giovani contro quanto era già stato codificato incarnavano la forza motrice dell’Espressionismo. Irrequietezza febbrile, preferenza per il processo di realizzazione piuttosto che per la forma conclusa e pacificata, tendenza al misticismo, tutti questi elementi sembrarono predisporre ‘l’indole tedesca’ al nuovo stile». Kasimir Edschmid (il primo storico del movimento, con una monografia scritta nel 1919) sostenne che «l’espressionista non vede, guarda: è uno spirito creativo anziché riproduttivo, che plasma il mondo in base alla propria volontà, offrendo una realtà frutto delle sue visioni personali».

ALTERNATIVA ALL’IMPRESSIONISMO. È naturale proporre un confronto con l’Impressionismo: il nome del nuovo movimento fu adottato proprio in contrapposizione alla scuola più famosa e fortunata della seconda metà dell’Ottocento. Le differenze tra i due movimenti sono sostanziali e profonde. Le opere di Monet, Manet, Renoir, Pissarro erano legate alla realtà esteriore, alla luce che impressionava i loro occhi. Erano gioiose, serene, e rispecchiavano i sentimenti del tempo, la promozione della borghesia, la fiducia nel futuro. Gli espressionisti impiegavano l’occhio per guardare dentro se stessi, interpretando una realtà che non ispirava alcuna fiducia, e che loro rappresentavano in modo ancor peggiore.
Gli impressionisti rappresentavano il bello: i paesaggi luminosi, ma anche le giovani ballerine impegnate nei saggi di danza, o i gentiluomini e le gentildonne che affollavano le tribune degli ippodromi, o i boulevard parigini gremiti di gente colorata e gaudente. Profondamente diversi dalle metropoli di Grosz o dagli operai di Felixmuller. La borghesia – dietro le lenti del loro occhio critico – è un’altra razza: ipocrita e brutta. Sgradevole e inquietante. Con l’Espressionismo il brutto diventa una vera e propria categoria estetica, cosa mai avvenuta prima con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale. Si diffuse allora (sottolinea Wolf) «un’estetica della brutalizzazione, della deformità, che si presentava come un’esortazione a far uscire l’arte dal ghetto della ‘bellezza’, del candore patinato, dell’atmosfera festosa».
La Prima guerra mondiale divorò molti di quegli artisti. Grosz, Pechstein, Meidner e Felixmuller furono tra i pochissimi a non aggregarsi all’entusiasmo generale per l’inizio del conflitto. Ma gli orrori della guerra segnarono il destino di chi raggiunse il fronte. Marc, Macke e Wilhelm Morgner caddero in battaglia. Kirchner, Oskar Kokoschka e Max Bechmann furono congedati anzitempo perché non sopportarono la vita fragile della trincea. Otto Dix divenne il più fiero oppositore del militarismo e della borghesia che lo aveva coltivato. Nel giro di pochi anni crollarono miseramente le ambizioni di quei giovani.
Nel 1906 Kirchner (il più intellettuale dei pittori espressionisti) aveva inciso su legno, insieme con il profilo stilizzato di un ponte, il programma di Die Brucke: «Confidando nel progresso, in una generazione capace di creare, ma anche di godere, convochiamo tutta la gioventù che, in quanto gioventù e portatrice del futuro, rivendica di fronte alle vecchie forze costituite la libertà di agire e di vivere. È con noi chiunque direttamente e genuinamente sappia esprimere quell’impulso che lo spinge a creare».
Gli artisti del gruppo di Dresda «erano alla ricerca», racconta Elger, «di una comunità non soltanto di lavoro, ma anche di vita. Heckel, che in qualità di amministratore del gruppo si era assunto compiti organizzativi, trovò un laboratorio per il gruppo nella bottega di un calzolaio nella Berliner Strasse, al centro del quartiere operaio di Dresda. L’atelier divenne centro di uno dei più significativi sviluppi dell’arte del Novecento. L’arredamento del locale rivela chiaramente che per gli artisti non esisteva soluzione di continuità fra ambiente di lavoro e ambiente di vita, fra arte e vita. I mobili erano fatti e dipinti a mano con motivi esotici. La tappezzeria decorata con motivi di batik di loro creazione. Durante le loro sedute creavano insieme le opere, ne discutevano i risultati, recitavano poesia, leggevano Nietzsche, si ispiravano e si influenzavano reciprocamente nei modi più diversi». Il gruppo rimase a Dresda fino al 1911, quando si trasferì a Berlino. Ma la capitale ebbe un’influenza negativa. Due anni dopo il sodalizio si sciolse.
Una vita anche più effimera ebbe il gruppo del Cavaliere azzurro a Monaco di Baviera. Ci fu poi un terzo nucleo di espressionisti nella Germania Settentrionale, ma è del tutto improprio definirli come un gruppo. Non si conoscevano neppure fra di loro, e vivevano in città molto distanti l’una dall’altra. Qualche caratteristica, tuttavia, li accomunava. Emil Nolde, Christian Rohlfs e Paula Modersohn-Becker dipingevano in forme più semplici e sintetiche. I soggetti erano più legati alla natura, lontani dalle polemiche politiche e sociali.

LA CARICATURA. Nel 1948 George Grosz raccontò la propria vita e il proprio percorso artistico in un libro (Un piccolo sì e un grande no). Un piccolo episodio dell’infanzia avrebbe certamente incuriosito Sigmund Freud, che da pochissimo tempo aveva fondato la nuova scienza della psicanalisi: «Un giorno, a scuola, durante la ricreazione (tutto era strano e nuovo per me, e non ero ancora riuscito a farmi qualche vero amico) mentre, con la testa nelle nuvole, stavo per addentare il panino che avevo appena tratto dall’involto, un ragazzo, giungendo di corsa, mi urtò nella schiena con tanta violenza che caddi lungo e disteso nel fango, con la faccia sul panino. Rimasi come paralizzato. Ero mezzo soffocato e, per quanto lo vedessi correr via, non fui in grado di seguirlo né osai ingaggiare battaglia. Perché? Non lo sapevo nemmeno io. Era stato qualcosa di diverso della solita botta sulla schiena. Ricordo come bruciavo d’odio e di rabbia, mentre singhiozzavo silenziosamente. Strano! Più tardi imparai la lezione. E ancora più tardi entrai a far parte della banda di ragazzi che colpivano alla schiena i bambini distratti che mangiavano panini. Ma è curioso che io non abbia mai dimenticato l’incidente. Molte volte ho provato quel senso d’ingiustizia, di solitudine e di abbandono di cui mi resi conto nel cortile della scuola. Era come se avessi scoperto la recondita legge della brutalità, l’eterna e onnipresente gioia maligna che si prova per le disgrazie altrui».
La cattiveria maligna produsse la satira e il cabaret (kabarett, in lingua tedesca): Grosz fu uno straordinario disegnatore satirico. Ma anche Otto Dix, nei suoi dipinti e nelle sue xilografie, fu un feroce fustigatore di costumi. «La caricatura», ha scritto Ernst Gombrich, «è sempre stata ‘espressionista’, perché il caricaturista gioca con la somiglianza della sua vittima, e la deforma per esprimere ciò che egli pensa del suo prossimo. Fin tanto che tali deformazioni della natura viaggiarono sotto la bandiera dell’umorismo, nessuno le trovò difficili da capire. L’arte umoristica era un campo in cui tutto era permesso; perché la gente non vi si rivolgeva con i pregiudizi riservati all’Arte con la A maiuscola. Ma l’idea di una caricatura seria, di un’arte che mutasse a ragion veduta l’aspetto delle cose, non per esprimere una sua superiorità del soggetto, bensì, forse, l’amore o l’ammirazione o la paura, rappresentò davvero un ostacolo». Un precursore era stato Van Gogh. In una lettera spiegò come si accingesse a dipingere il ritratto di un amico. La somiglianza convenzionale era solo il primo stadio. Dopo aver dipinto un ritratto ‘esatto’, egli procedeva nelle modifiche: «Esagero il colore biondo dei capelli, piglio arancio, cromo, limone e dietro la testa non dipingo la banale parete della camera ma l’infinito. Stendo su uno sfondo semplice l’azzurro più intenso e ricco che la tavolozza può dare. La testa bionda e luminosa si staglia su questo sfondo di azzurro carico, misteriosamente, come una stella nel cielo. Ahimé, caro amico, il pubblico non vedrà altro che una caricatura in questa accentuazione. Ma che cosa ce ne importa?». Gombrich sostiene che «Van Gogh aveva ragione quando diceva che il metodo da lui prescelto poteva paragonarsi a quello del caricaturista», ma quella «è anche la nuda verità: i nostri sentimenti colorano di sé la nostra visione, e ancor più il nostro ricordo. Chiunque può aver sentito come lo stesso luogo ci appaia diverso a seconda del nostro stato d’animo».

Questa è la descrizione migliore e più calzante dell’Espressionismo: la rappresentazione della nuda verità filtrata dai ricordi e dagli stati d’animo. Così sono nati molti capolavori.

Autore: Max Remondino

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Fonte:Il Carabiniere