Anni di studi, decine di esperti, un gigantesco ponteggio di quindici piani. Ora è tutto pronto per il recupero. Che sarà costoso e pericoloso.
E’ stato un violento choc termico a scatenare l’esplosione di detriti incandescenti che, come meteore impazzite, nella notte dell’11 aprile 1997 bombardarono l’aula della cappella della Sindone di Torino, percorsa dalle fiamme. Sconvolsero altare, monumenti e arredi, al culmine di un violento quanto rapido sbalzo di temperature, che mutò persino la composizione chimica di pietre e marmi secolari. A sette anni dal rogo che devastò il capolavoro concepito nel 1660 dall’architetto Guarino Guarini per accogliere la reliquia più famosa della cristianità, un’équipe di esperti, sotto l’egida dei Soprintendenti Lino Malara e Francesco Pernice, ha infine chiarito dinamica e fenomeni di quella tragedia, per pianificare i rimedi. E’ molto più di una ricognizione dei danni. Si può definire una sorta di “Tac”. Condotta con le più aggiornate tecnologie diagnostiche, deve accertare “terapie”, tempi e costi dei lunghi interventi di restauro che dal prossimo autunno, con 25 milioni di euro, restituiranno alla Cappella “l’immagine che aveva prima della tragedia”, secondo un approccio deciso dalla Soprintendenza ai Beni architettonici del Piemonte con il ministero ai Beni Culturali e l’Istituto Centrale del Restauro.
L’analisi prende avvio dalla ricostruzione del rogo. Le fiamme, avvistate alle 23,45, ingaggiano fino all’ 1,45 un duello con le acque profuse per spegnerle. Le lingue di fuoco, rinvigorite dalla cupola della Cappella, che funge da camino, cuociono le pietre e gli scuri marmi di Franosa. Sottoposti al calore si dilatano, per poi contrarsi sotto la doccia delle acque d’estinzione. Lo sbalzo termico frantuma i materiali. Esplodono in raffiche di macerie, mentre muta la loro identità chimica. Il risultato è drammatico. L’apparato lapideo, butterato dai crolli, varia aspetto da un centimetro all’altro. Qui è intatto, più in là si sfarina, trema al tatto o appare sbiancato “E’ un evento tragico quanto complesso, di cui non si conoscono precedenti”, assicura l’architetto Mirella Macera, che coordina le opere di recupero.
Ad aumentare le difficoltà si aggiungono le caratteristiche del monumento, costruito dal Guarini con criteri che i contemporanei definirono “Nuova maniera di fabbricare, affatto diversa dal sistema degli antichi e moderni architetti”. Guarini mette mano alla Cappella rivoluzionando un impianto impostato dal Castellamonte e da Bernardino Quadri. All’aula cilindrica creata da Quadri sovrappone un attico, più una volta a bacino tronco conico. Su di esso innesta un massiccio tamburo, scavato da sei grandi finestre e concluso da una straordinaria cupola: un “cestello” ad archi sovrapposti. Per dare stabilità a simili architetture, ardite fino a 60 metri d’altezza, Guarini utilizza una tecnica che si richiama ai principi della “stereotomia”.
E’ un metodo di taglio della pietra che permette ai rivestimenti interni di partecipare allo sforzo strutturale delle murature. I marmi che formano il tamburo non sono un arredo applicato, ma una faraonica struttura portante, composta da migliaia di cubi, prescolpiti e poi montati in quota tramite perni d’acciaio. Prima di toccarli è quindi bene avere idee molto chiare. “Perché ognuno di questi elementi”, nota Macera, “ha reagito in modo differente al rogo”.
L’aula in mattoni non ha risentito danni strutturali, solo rotture dei paramenti, provocate dalla caduta di detriti. Ma il bacino tronco conico, sorretto da quattro arconi nascosti nella muratura, è stato il cuore del rogo. Il novanta per cento del marmorei cielo stellato che trapuntava le sue superfici è crollato. Le pietre, un tempo bigie, sono impallidite. Il sovrastante tamburo cilindrico dal 1997 è “cerchiato” da catene esterne. Sostituiscono quelle originali dell’armatura interna, spezzate dal fuoco. Il “cestello” della cupola, retto da un nido di catene, muratura e pietre ha patito lesioni, che sono state ricucite con staffe.
Al “capezzale” di tale rovina lavora ora un’équipe di esperti della Soprintendenza, del Politecnico di Torino, dell’Istituto centrale di restauro di Roma e delle Università di Kassel in Germania e di Venezia. Da un mese hanno a disposizione un avveniristico ponteggio in acciaio, alto quindici piani. Sfiora le pareti, avvolgendosi attorno a un possente castello tubolare, installato nel 1997, pronto a contenere qualsiasi cedimento della cupola. Ne è artefice il professor Paolo Napoli, responsabile del monitoraggio continuo delle strutture. Con il professor Alessandro De Stefano deve “radiografare” la Cappella, per capire come Guarini ne organizzò gli elementi funzionali e per formulare un modello numerico che preveda come il monumento potrebbe reagire qualora fosse sottoposto a sollecitazioni, dai venti ai terremoti.
Con loro lavora Michael Link, con strumentazioni dell’Università di Kassel. Mentre lo storico Pino Dardanello ricostruisce la storia del cantiere di Guarini, Angelica Morandini, Paola Marini, Maurizio Gomez ed Elena Frugoni devono invece stabilire le caratteristiche mineralogiche dei materiali lapidei, per rintracciare nelle cave di Franosa quelli da sostituire. Al professor Guido Biscontin e all’architetto Lisa Acurti spettano la progettazione delle analisi chimico-fisiche necessarie per accertare le mutazioni innescate dall’incendio. Si aggiunge un rilievo laser, curato dai professori Gabriele Garnero e Guido Cortellazzo.
“Scannerizzano” ogni millimetro della Cappella. Mentre un gruppo guidato dagli architetti Fernando Del Mastro e Augusta Cirillo Gomez censisce il degrado dei 5 mila conci che la assemblano. Sono stati schedati persino tutti i frammenti di macerie cadute. La storica dell’arte Lucia Calzona e i restauratori Cristina Meli, Marco Paolini e Giorgio Cagnotti hanno incominciato a pulirli, e a identificare i punti da dove sono caduti, per poi ricollocarli.
Entro ottobre le diagnosi saranno finite. “In autunno”, dice Macera, “saranno definiti criteri e tempi dei primi cantieri di consolidamento, appaltabili dal 2005. Dovranno restituire alla Cappella piena capacità portante e fissare le superfici interne. Stabilizzare le pietre sarà il problema più arduo. Prevediamo lavori complessi come il degrado. Richiederanno tecnologie diverse ed estese integrazioni. Dieci colonne del tamburo sono da sostituire, mentre per ricostruire il cielo stellato del tronco conico useremo pietra artificiale in stampi”.
Autore: Maurizio Lupo
Fonte:La Stampa – Specchio