L’arte, si sa, vive nel sistema dell’arte. Il sistema dell’arte è una realtà concettuale ormai accettata da tutti, come il contenitore entro cui interagiscono artista, critico, gallerista, collezionista, mass media, museo e pubblico.Tale catena, ben oleata dal circuito internazionale, ha funzionato a pieno ritmo dagli anni Sessanta agli Ottanta. Ma in quest’ultima decade del secolo la razionalizzazione di ogni sistema produttivo ha cambiato anche quello dell’arte, ridimensionando alcuni anelli di questa catena: galleria, collezionismo e riviste specializzate.La globalizzazione sembra segnare anche le strategie del sistema dell’arte, con un’attenzione non all’opera ma al suo emblema eccellente: il museo. L’arte è diventata un grande condominio in cui il museo è il proprietario, i curatori sono i ragionieri e il pubblico un veloce ospite-voyeur. E gli artisti rischiano di essere solo i locatori, sempre sottoposti al rischio di sfratto.La notizia di alcuni mesi fa dell’accordo tra il Modern Art Museum e il P.S.1 di New York segna esplicitamente un salto di qualità nel sistema dell’arte che si preserva grazie a una rete di alleanze e fusioni tipiche dei grandi gruppi finanziari multinazionali. In questo caso, premiato è il riconoscimento di una diversità complementare.Il Moma, sacrario americano delle avanguardie storiche e recenti. Il P.S.l, diretto da Alanna Heiss, luogo sperimentale di mostre internazionali che al posto della collezione ha dato spazio ad ateliers di artisti. Ecco un’opportuna miscela di volontà conservativa e spirito creativo.Possiamo rintracciare tra Europa e Stati Uniti un vero e proprio cartello delle Sette Sorelle del sistema dell’arte, anch’esso governato dalle ferree regole della globalizzazione.Sicuramente al polo di grande prestigio Moma – P.S.l se ne contrappongono altri due in America: il Guggenheim ed il Metropolitan Museum. Il primo, ha costituito una holding museografica con le due sedi newyorkesi (una sulla Fifth Avenue e un’altra a Soho), quella di Bilbao, una possibile a Salisburgo e la fondazione Guggenheim di Venezia a fianco alla costituenda alla Punta della Dogana. Il gruppo, guidato da Thomas Krens, funziona giocando su un doppio pedale tra centralizzazione e decentramento, come la Fiat nei vari paesi del mondo.Il Met, presieduto da Philippe de Montebello, costituisce il modello di una struttura museografica che diversifica l’offerta dei lavori esposti: dall’arte primitiva alla pittura italiana del Cinquecento, da quella spagnola del Seicento alla Transavanguardia. Mostre di vario tipo si sovrappongono con buona organizzazione in spazi differenziati, accompagnate da una grande opera di merchandising, ormai emulato da tutti i musei del mondo.Le altre Quattro Sorelle convivono in Europa. Una Sorella di stato, quella francese, ma sempre col piglio imperiale del cartello: il Beaubourg, diretto da Werner Spies, allocato a Parigi, è in via di ampliamento, con altre sedi nella capitale. Con una strategia di valorizzazione dell’arte francese, impressionismo e postimpressionismo, movimenti di entrata all’arte contemporanea.Forte è anche la tentazione di declinare nella propria lingua i movimenti cosmopoliti delle avanguardie storiche sviluppatisi nella Ville Lumière (da Brancusi a Modigliani, da Balthus a Christo). Anche con un’attenzione alle figure preminenti delle neoavanguardie del dopoguerra e a quelle dell’attualità internazionale.Il trend globalizzante è in ogni caso segnato da “Les magiciciines de la terre”, a cura di Jean Hubert Martin (1989), progetto museografico di un’esposizione multiculturale comprendente artisti occidentali nonché del Terzo Mondo.In Inghilterra anche la Tate Gallery, diretta da Nick Serota, ha ristrutturato il proprio spazio e si prepara a ultimare quello specificamente dedicato alla contemporaneità. Un museo che, oltre a celebrare il proprio Settecento, sembra accendere l’attenzione sull’attualità come momento vitale per le ultime generazioni inglesi, sostenute patriotticamente dal collezionista Saatchi. Pur perseverando in una strategia di connessione con artisti europei ed americani.Le ultime Due Sorelle si muovono in un territorio tra Mitteleuropa e quella dell’Est: portano il nome di Ludwig e Soros.Tra Vienna, Colonia, Aachen, Budapest, l’industriale del cioccolato Ludwig (recentemente scomparso) ha fondato una struttura ramificata, tra pubblico e privato, tra collezione ed attività espositiva, in spazi museografici appositamente costruiti: opere di artisti di tutto il mondo e tendenze (dal realismo socialista sovietico alla pop art americana, dal concettualismo al neoespressionismo) e mostre documentanti figure e movimenti internazionali si succedono incessantemente nelle varie sedi.Soros, il finanziere di origine ungherese destabilizzatore di monete e mecenate di artisti abbandonati alle economie disastrate dei paesi dell’Est, ha promosso una serie di fondazioni in diverse capitali, chiamando a dirigerle curatori di sua fiducia, magari americani ma originari di quelle contrade, dai Balcani ai Paesi Baltici, dalla Russia all’Ucraina.Ecco il parterre del sistema dell’arte attuale, che in ogni caso, il sistema contraendosi nei tre anelli opera, critico e museo, ha creato une sorta di opificio dell’arte, teso a globalizzare opzioni artistiche e la formazione del gusto sociale, a suo tempo garantito nel suo pluralismo anche dalla costellazione di gallerie ormai ridotte per numero ed incidenza culturale.La contrazione del sistema dell’arte ha determinato anche una trasformazione dell’identità del critico, non più militante e proverbialmente libero ma organico e consociativo alla politica del museo.Si afferma sempre più la figura del curatore, portato e costretto ad un’unica scrittura, quella organizzativa, e puramente documentativa di ciò che si produce e si rassomiglia nel territorio internazionale. Ecco costituita una vera e propria corporazione di curatori che si scambiano artisti ed occasioni di mostre, rinunciando alle differenze e al miraggio di futuri diversi dell’arte.Così perdono quasi senso le grandi mostre internazionali e gli appuntamenti biennali e quinquennali come Venezia e Kassel.L’eterno presente della produzione artistica si srotola sotto i nostri occhi, se ne allagano inesausti musei…E questi ne sono sempre più convinti e coesi in una politica che è gestione dell’attualità come fragorosa novità, perché il suo pubblico esulti riconoscendola. Già perché alla clonazione dell’opera e del critico segue quella del pubblico, fuso nel ready-made collettivo dell’esposizione museale, bell’e incorniciato, tutt’uno con la cronaca dell’epifania artistica.Su tutto trionfa la cerimonia espositiva che, per la sua natura puramente documentativa, risulta alla fine performativa, assolutamente spettacolare (in fine affatto priva di qualità perturbative).Trionfa la griffe del museo: che non è più la cornice storica che garantisce il passato, la soglia aurea che celebra il riconoscimento della persistenza dell’arte, ma il gancio multinazionale che garantisce il circuito di un medesimo presente senza frontiere e senza memoria.