Non sono un nostalgico dell’ancien regime, come implicitamente mi accusa di essere il soprintendente di Firenze Antonio Paolucci, in un articolo apparso recentemente sul Giornate dell’arte. Ho firmato, non lo nego, insieme ad altri colleghi tra cui Paola Barocchi, Michael Hirst, Willibaid Sauerlaender e Salvatore Settis, una lettera di protesta contro il movimento perpetuo con cui si mettono a rischio opere d’arte di prestigio assoluto per far da testimonial in eventi espositivi motivati più da ragioni politico-diplomatiche che culturali. Ma non per questo mi auguro di vedere gli Uffizi deserti come quando li visitava Berenson, nè vorrei che le mostre fossero frequentate da pochi e scelti conoscitori. Anche a me hanno insegnato che non si sputa nel piatto in cui si mangia. Ma dirò di più: di tutte le accuse, velate o esplicite, che Paolucci rivolge a me e ai cofirmatari di quella lettera (chi abbia voglia di leggerla per intero la troverà sul Giornale dell’Arte di gennaio), quella che più mi sorprende, non essendo versato in Studi psicanalitici, ma meno mi tocca, è quella relativa alla " latitanza vergognosa dell’Università" , che secondo Paolucci impedirebbe ai giovani meritevoli di pubblicare le proprie ricerche. Sono ben altri i guasti dell’Università italiana di cui mi vergogno, primo fra tutti la mediocre demagogia con cui garantisce a chiunque l’opportunità di iscriversi a qualsivoglia corso di laurea, ma non quella di uscirne con un diploma in tasca dopo un ragionevole lasso di tempo ed un impegno individuale adeguato. Ma quanto a pubblicazioni – periodiche e non – di giovani e di meno giovani, l’università italiana, e il nostro settore in particolare, è fin troppo prodiga, come da sempre testimoniano i cori d’invidia dei colleghi stranieri – americani, ma non solo – per la quantità di riviste e di pubblicazioni scientifiche che produciamo in Italia. Diverso sarebbe il discorso se si parlasse di qualità, ed è su questo terreno che Paolucci dovrebbe confrontarsi senza divagare o coprirsi dietro un fuoco di sbarramento indirizzato contro bersagli di comodo. Ma davvero considera positiva per la ricerca la congerie di testi che affolla gli ipertrofici cataloghi delle nostre mostre? O non pensa come me, dato che è fra i pochi capaci di produrre sia ricerca che godibilissima divulgazione, che da noi la maggior parte dei cataloghi sono invariabilmente fallimentari sul piano della divulgazione dei contenuti della ricerca (peccato veniale, se in alternativa si predisponessero specifiche pubblicazioni rivolte al grande pubblico, il che non accade quasi mai), ma sono spesso carenti anche sul piano scientifico, perché disorganici, raffazzonati e occasionali nel senso peggiore del termine? Ma venendo al merito della questione che abbiamo posto con la nostra lettera, poiché, come anche Paolucci ci concede, non siamo in assoluto contro gli spostamenti di opere d’arte, ma ci auguriamo semplicemente che siano concessi con discernimento, torna a proposito proprio l’esempio della mostra sul cardinal Ferdinando che si tiene in questi giorni a Villa Medici. Paolucci, giustamente, rivendica il merito (e il coraggio) di essersi assunto la responsabilità, contro il parere dei Direttori dei Musei direttamente interessati, di prestare alla mostra il Mercurio di Giambologna e due statue del gruppo dei Niobidi. Ma quella mostra, come ricorderà chi ha letto su queste pagine la mia entusiastica recensione, si sforza di ricostituire, sia pure temporaneamente, il contesto originario della collezione del cardinale Ferdinando de’ Medici nella sua villa romana: di qui l’importanza rivestita dalla presenza di opere come quelle prestate da Paolucci, che di quel contesto originario erano gli elementi di maggior spicco. Il problema, insomma, non è quello di negare i prestiti ad ogni costo, ma di concederli a ragion veduta, e questa ragione non può essere di pura opportunità politica, perché il compito di un Conservatore non è quello di accondiscendere incondizionatamente alle richieste della politica e nemmeno quello di contrastarle per principio, ma quello di orientare le decisioni politiche in modo che siano in sintonia con le ragioni della cultura. E queste ultime consigliano che un Paese come il nostro sia geloso della salvaguardia dei contesti storici e della propria identità culturale, piuttosto che assecondare la tendenza alla dissipazione spettacolare e all’omologazione che è già di per sé così forte nell’era della globalizzazione. Alla nostra richiesta di salvaguardare questa identità e di impedire che il nostro paese dia il triste spettacolo di svendita all’ingrosso che stanno dando proprio in questi anni paesi di più modesta cultura e tradizione, Paolucci risponde che bisogna arrendersi di fronte alle ragioni della promozione pubblicitaria e all’inarrestabile tendenza alla mitizzazione di massa delle opere d’arte, " pallidi soli" che sostituiscono nell’immaginario delle masse " le declinanti religioni, la politica che non c’è più, le identità sociali sempre meno riconoscibili" . Molto ben detto: ma io continuo a pensare che il compito di un intellettuale non sia quello di demonizzare i " segni dei tempi" , ma nemmeno di assecondarlo acriticamente. Se c’è, come c’è, una deriva mitizzante, proprio perché se ne intendono le motivazioni profonde, spetta a chi fa il nostro mestiere contrastarne gli effetti di appiattimento unidimensionale, inoculando dosi massicce del vaccino di cui dovremmo essere i depositari: lo spirito critico.
Autore: Antonio Pinelli