Le dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi riguardo le intenzioni del dicastero appena insediato di rendere gratuito l’ingresso ai musei, ispirandosi a politiche in uso nei musei britannici rappresenta ciò che gli stessi abitanti della notoriamente perfida Albione riterrebbero una dead duck (anitra morta). Una politica meno demagogica ma sicuramente più efficace consiglierebbe piuttosto un sistema meno monolitico di tariffe e biglietti cumulativi, studiati secondo le richieste di un pubblico differenziato. Il provvedimento ventilato é non meno inopportuno in quanto l’incasso dei musei rinnovati a fatica e a grande costo per la collettività, ha portato allo Stato nel ’99 circa 127 miliardi di lire, in gran parte provenienti dal turismo estero.Più urgente e degno di attenzione pare il tema di una vera autonomia dei musei che nella definizione dell’Icom sono “istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società e del suo sviluppo” definizione acquisita da tempo negli altri Paesi europei, ma non ancora recepita dalla legislazione italiana in quanto il museo resta tuttora identificabile con la sola collezione.Oggi le formule di apertura verso il privato, previste dalla legge Ronchey sono in grave crisi (i cosiddetti servizi aggiuntivi): perché i privati non arrivano a stabilire un’economia di scala, ma soprattutto perché non è così, frazionando le competenze, che si possa governare e promuovere un’istituzione culturale. La vera sfida per un governo che si dica liberale è senz’altro quella di affrontare il nodo gordiano dell’identità museale, della sua missione (o meglio, la latineggiante missio, più cara ai gusti filologicamente corretti di alcuni).Un importante passo per avvicinare il museo, al pubblico e per incoraggiare quest’ultimo a vedere nei beni culturali una risorsa ambientale, come precisa Zanardi qui a fianco, è quello appena portato a termine dal Ministero stesso degli Standard museali.Il documento finalizzato pochi giorni prima della fine dell’ultima legislatura, elaborato da una commissione di esperti e studiosi, e un tentativo di misurarsi con molti aspetti della vita museale che mette a fuoco non soltanto la corretta conservazione delle opere, ma soprattutto il rapporto con il pubblico dall’accoglienza, alla qualità della comunicazione, ai “servizi per l’utente”, introducendo nel linguaggio ministeriale delle novità fin qui mai udite: un documento, infine, non burocratico, ma un manuale di uso pratico, di consultazione, a disposizione di ogni museo della Repubblica.Ma il problema dell’identità museale nella società non è che uno degli aspetti di una politica culturale ancora da concepire. Non si può ignorare, per fare soltanto un esempio, che le neonate fondazioni liriche (gli end lirici sono 13 in tutt’ltalia) hanno assorbito nell’anno 2000, 463 miliardi sul totale di mille miliardi a disposizione di tutti gli spettacoli dal vivo, quasi 10% in più dell’anno precedente. La danza, uno dei comparti più creativi e innovativi riceve per l’intero settore – che conta quasi 80 compagnie – soltanto 13,4 miliardi, forse per un antico pregiudizio che equipara la danza moderna al balletto; mentre il Teatro di Prosa aspetta da anni una legge e una razionalizzazione delle risorse.Un recente studio sempre in terra britannica ha rilevato che l’80 % della popolazione adulta è impegnata in qualche forma di apprendimento volontario e meno del 20% trova espressione dentro i canali tradizionali di scuola e università. La domanda di acculturamento esiste, ma resta potenziale e si rivela soltanto nel momento in cui l’offerta si avvicina alla domanda.Non potrebbe essere questa una strada importante per un rinnovato sistema della cultura, in grado di confrontare e commisurare insieme domanda e offerta?
Autore: Anna Detheridge
Fonte:Il Sole-24 Ore