La cultura è una mischia

Immaginiamo un fotografo che debba ritrarre una classe di ragazzini irrequieti, che non stanno fermi un istante. La messa a fuoco risulta difficile e anche l’inquadratura. Se poi anche il fotografo inizia a muoversi di qua e di la, l’operazione diventa pressoché impossibile. La fotografia che ne verrà fuori sarà simile a quelle " immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati" di cui paria Arjun Appadurai, antropologo dell’Università di Chicago nel suo libro " Modernità in polvere" (Meltemi, pp. 288, L. 36.000). Il titolo italiano restituisce ottimamente il senso dell’ambiguo gioco di parole che sta alla base dell’originale: " Modernity at large" . " At large" infatti significa " nel suo insieme" , ma anche " alla macchia" , dispersa. Perché dunque questa modernità è in polvere o in fuga? Perché sono saltati i confini che determinavano territori, culture, società. Perché oggi la realtà e fatta di " lavoratori turchi emigrati in Germania, che guardano film turchi nei loro appartamenti tedeschi" , di filippini appassionati di canzoni americane d’epoca che ripropongono in versioni più " autentiche" degli originali, nonostante la loro vita non sia affatto sincronizzata con quella degli Stati Uniti. Perché, ci dice Appadurai, la globalizzazione ha prodotto una frattura tra il luogo di produzione di una cultura e quello o quelli della sua fruizione. L’immaginazione, grazie alla sempre maggiore rapidità e onnipresenza dei mass-media, e divenuta cosi un fatto collettivo e si è trasformata in un campo organizzato di pratiche sociali. Ne consegue una frammentazione di universi culturali che mette in crisi ogni paradigma tradizionale delle scienze sociali. I panorami sociali, etnici, culturali, politici ed economici si fanno sempre più confusi e sovrapposti, le linee di confine spezzettate e irregolari. Ma soprattutto questi panorami, attraversati da continui flussi culturali globali, si riflettono l’uno nell’altro, dando vita a un caleidoscopio mutevole e sempre nuovo.Appadurai riprende l’immagine proposta da Benedict Anderson secondo il quale, grazie al capitalismo a stampa e alla conseguente alfabetizzazione di massa e successivamente al capitalismo elettronico, è stato possibile la creazione di quelle che lui ha definite " comunità immaginate" , cioè gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia a faccia, ma che finiscono per condividere un’idea comune, come il pensarsi indonesiani, pur essendo lontani dall’Indonesia.La deterritorializzazione è una caratteristica del mondo moderno che, unita alla sempre maggiore circolazione di informazioni, dà vita a una serie di immaginari sempre più complessi. Ecco allora apparire quelli che l’autore chiama etnorami, cioè gli scenari culturali prodotti e percepiti dall’enorme gruppo di individui in movimento sul pianeta (rifugiati, emigranti, esiliati, turisti) che danno vita a sempre nuove identità. Oppure i mediorami, l’insieme delle immagini del mondo create dai media, che finiscono per alimentare e stimolare nuovi immaginari; i tecnorami, che nascono dalla sempre più mobile e diffusa tecnologia transnazionale e dai flussi fiscali tra Occidente e cosiddetto Sud del mondo. E ancora i finanziorami, dati dalla sempre maggiore rapidità di movimento del capitale globale e infine gli ideorami, ideologie e abitudini universali delle quali si appropriano le comunità locali trasformandole in qualcosa che spesso risulta diverso dall’originale. Caso esemplare, descritto, nel libro, e quello del cricket, che, dopo essere stato trasportato nell’India coloniale, ha via via perso il suo status aristocratico di gioco delle classi agiate inglesi per diventare, anche grazie all’azione dei media, un vero e proprio simbolo dell’India popolare attuale. E il cricket giocato oggi dagli ex figli dell’Impero non è semplicemente un prodotto d’importazione, ma fa riferimento a un universo morale tutto indiano.Questa riflessione di Appadurai mette in evidenza come, al di là delle tre dimensioni dello spazio e di quella del tempo che caratterizzano la nostra vita " biologica" , sia in una " quinta dimensione" , quella dell’immaginazione, che l’umanità prende forma. Umanità che spesso nasce non da realtà oggettive, ma da un progetto comune i cui fondamenti non sono per forza oggettivamente riconoscibili, quantificabili e tantomeno coerenti con la storia della comunità che vi si identifica. Al disagio dello spazio tradizionale corrisponde anche una nuova concezione temporale, che spesso nasce dalla pratica del consumo che, pur rimanendo legata alle pratiche del corpo, è oggi inserita in una sorta di bagno globale a cui deve riferirsi. Ogni oggetto (di consumo o meno) ha una sua biografia culturale legata alla cultura che lo ha prodotto, ma quando di quell’oggetto si impadroniscono nuovi attori la sua biografia non coincide talvolta con la storia di questi attori e occorre pertanto rimodellarlo a proprio uso e consumo. Il passato, ci dice Appadurai, da spazio d’azione per la memoria è diventato un deposito sincronico di scenari culturali, una specie di archivio culturale del tempo a cui fare ricorso come meglio si crede. Questa diaspora mondiale crea nuovi mercati i quali, a loro volta, creano nuovi bisogni e nuovi gusti che nascono dalla necessità, da parte dei fuoriusciti, di mantenere un contatto con la madrepatria, anche se talvolta questa patria risulta inventata. Infatti, la cosiddetta globalizzazione non si realizza in pratica con un’invasione indifferenziata di elementi comuni che conducono alla omogeneizzazione. Il processo è più articolato e tali strumenti vengono riproposti di volta in volta in discorsi che si basano sulle diverse sovranità nazionali o locali. Anche il capitalismo non si presenta affatto come in passato, un fronte unico al quale opporsi con teorie contrapposte. Il capitalismo di oggi è anch’esso frammentato e polverizzato, assume forme diverse da luogo a luogo tanto da indurre l’autore a chiedersi se si tratti davvero di un sistema oppure se ci troviamo di fronte a un capitalismo disorganizzato e irregolare.Questo ci porta a una inevitabile riflessione sull’ormai abusato concetto di identità. Assistiamo ogni giorno alla crisi dell’ idea di Stato-nazione. La sovranità territoriale appare sempre meno sostenibile di fronte al dilagare di un’economia globalizzata da un lato e da società sempre più frammentarie e frammentate. Non a caso la questione del multiculturalismo sembra acquisire sempre maggiore spazio nelle nostre società. Il problema è che spesso viene affrontata con la stessa concezione di cultura formulata dagli antropologi di fine ‘800 che studiavano comunità legate al loro territorio. Oggi le minoranze si collegano ad aggregazioni più ampie su base etnica o religiosa e le nuove forme di etnicità manifestano sempre più frequentemente ambizioni nazionaliste. Quanti sono i gruppi che, con determinate idee sulla nazionalità, tentano di conquistare gli Stati? Identità sbagliate, si sostiene a volte, ma esistono identità giuste? L’autore si inserisce qui nel filone più moderno degli studi sull’identità, dimostrando come le identità collettive siano spesso il prodotto di narrazioni più o meno arbitrarie e non certo essenze primordiali geneticamente connesse agli individui. Identità spesso create da rapporti di forza, come il caso dei censimenti coloniali inglesi in India i quali quantificando e classificando la popolazione hanno " contato" le identità e le hanno fissate burocraticamente, dando vita a entità codificate e di conseguenza a nuovi punti di riferimento per gli abitanti del paese. Etichette che appaiono naturali come ebreo, arabo, tedesco o indù riuniscono in realtà persone che hanno scelto quell’etichetta, altre cui e stata imposta e altre ancora che attraverso ricerche storiche rafforzano le loro storie oppure le utilizzano per sopravvivere in determinati contesti. Identità che pero si traducono talvolta in violenze efferate, come ci ricordano i purtroppo sempre più frequenti conflitti attuali. In un contesto cosi destrutturato, si chiede Appadurai, il patriottismo ha un futuro? E a quali razze e a quali generi apparterrà quel futuro? La risposta sta forse in una frase pronunciata dal leader kanak Jean-Marie Tjibaou: " L’identità non sta nel nostro passato, ma è davanti a noi" .

Autore: Marco Aime

Fonte:La Stampa – Tuttolibri