Al confronto non si sfugge. Il libro che Mauro Calamandrei ha dedicato alla gestione delle maggiori istituzioni culturali americane, tra filantropia e volontariato, invita inesorabilmente a spostare l’attenzione dal mondo dorato degli Usa alla ben più intricata e variegata realtà italiana. Giornalista di lungo corso e fine conoscitore della scena statunitense – da cui invia, fra l’altro, le cronache culturali che leggiamo periodicamente sulle pagine del Sole-24 Ore – Calamandrei ci racconta la grande storia di un Paese che fino a cent’anni fa non aveva neppure un museo e oggi ne conta oltre 8.000; che ha saputo dar vita al Met, al Moma e all’American Museum of Natural History, ma ha anche potuto contare sull’eccentrica generosità di un misantropo quale J. Paul Getty o sull’irrefrenabile attitudine alle donazioni di un nuovo ricco come Michael Bloomberg; che si porta dietro praticamente da sempre l’immenso valore della filantropia e che ha fatto del volontariato, in tutti i campi, una vera e propria forma mentis. Un confronto anche troppo facilmente impietoso per l’Italia, che pure comincia ad avere circa 2.000 associazioni impegnate nel settore dei beni culturali, attorno alle quali ruotano quasi 70.000 volontari e che si sta di fatto avviando verso una radicale revisione dei criteri di gestione del patrimonio artistico. Ma anche un confronto utile per imparare dagli americani e dal mondo anglofono in generale l’arte sottile di incentivare le donazioni, siano esse in denaro o, non meno preziose, in tempo, energie e altre risorse: da parte del magnate, come del privato e anonimo cittadino. Si fa un gran parlare da qualche tempo a questa parte, chi con ammirazione chi con perplessità, della crescita vertiginosa che sta caratterizzando colossi come il Metropolitan Museum, il Guggenheim o il Moma, e della loro abilità nel fare propria una logica di gestione manageriale che, nel bene e nel male, li sta trasformando in vere e proprie holding finanziarie (sebbene siano essi stessi ben lungi dal vantare bilanci in attivo!).Eppure, a colpire davvero è piuttosto la straordinaria capacità degli americani di convogliare la generosità dei singoli individui in iniziative di pubblica utilità: " Impegno – sottolinea Calamandrei – costantemente arricchito dal volontariato e dall’associazionismo" . Secondo una stima della Gallup Organization, riportata dall’autore, nel 1995 novantatre milioni di uomini e donne hanno donato al settore del no profit in media 4,2 ore alla settimana per un totale di 20,3 miliardi di ore lavorative. Senza trascurare che già nel ‘90 il cosiddetto terzo settore costituiva il 10,4% del Prodotto interno lordo. Tra questi, una schiera di uomini e donne, anziani e ragazzi si è lasciato conquistare dalla causa dell’arte: basta dire che i musei americani impiegano nel complesso circa mezzo milione di persone, 150.000 delle quali sono curatori, amministratori, custodi e tecnici specializzati, e le restanti 350.000 sono volontari non pagati. Un esercito di proporzioni monumentali, dunque, fatto di privati cittadini che al bisogno si attivano, ad esempio, per promuovere la rinascita del Central Park, creando nel 1980 l’organizzazione filantropica no profit Central Park Conservancy e, visti i risultati, ricevendo poco dopo dal municipio – che pure mantiene la proprietà del terreno – la gestione della vegetazione, delle aree ricreative e dei sentieri. Ma vero è, a questo proposito, che parliamo di un Paese in cui se l’assistenza pubblica non è più un diritto garantito dal governo nazionale, un ente no profit gode per eccellenza dell’esenzione fiscale. Non è tenuto a versare imposte federali e spesso è dispensato anche dal pagamento di quelle dello Stato in cui ha sede. Così come le donazioni, va da sé, sono nella gran parte dei casi esenti da imposte.Mauro Calamandrei, " Febbre d’arte. Filantropia e volontariato nella gestione delle istituzioni culturali americane" , II Sole-24 Ore, Milano 2000, pagg. 288, L. 34.000.
Autore: Silvia d’Orso
Fonte:Il Sole-24 Ore