Il successo a ogni costo

Sentiamo spesso parlare del sogno americano. Cos’è? Niente di speciale. E’ quello di diventare qualcuno, di eccellere nella professione, di guadagnare molti soldi, di diventare famoso, di entrare nel Guiness dei primati, di essere il number one in qualcosa, di apparire sui giornali, di scrivere dei best-sellers, e via dicendo. Si dirà che il sogno americano, in realtà, è un sogno universale. Tutti da ragazzi ci immaginiamo di riuscire un giorno a fare grandi cose, che poi si rivelano troppo difficili, troppo lontane e quindi vengono lasciate perdere, come miraggi. I primi insuccessi a scuola o nella vita ci fanno rimediare a tutta la faccenda. Spesso ci accorgiamo che i primati, di qualsiasi natura, sono faticosi e li lasciamo perdere, per mancanza di sostanza e di fermezza. Ma ciò che rende spesso pericoloso o rovinoso il sogno americano è che esso negli Stati Uniti è vissuto e sofferto in modo molto più intenso che in Europa. Da noi esso mostra avere dimensioni fisiologiche, mentre troppo spesso in America è patologico. Noi europei disponiamo di doti (la saggezza, il senso della misura, il senso del passato) che in America sono molto più rare. I nostri sogni sono raffreddati da una sorta di consapevolezza storica di fondo, che ci accompagna quasi per ragioni generiche. Appartenere ad un continente così carico di storia contribuisce a sviluppare un autocontrollo quanto mai salutare, creatore di armonia ed equilibrio. Non europei siamo un po’ come i nobili che in genere non sono molto ambiziosi, perché le vette delle vita sono già state raggiunte dai loro antenati. Invece negli americani il sogno del successo è sovente pauroso e malato. Essi sono impegnati in quel sogno spesso fino allo spasmo e alla nevrosi. Per entrare nell’elenco dei numeri uno sono capaci non di rado di qualunque azione, di firmare un patto col diavolo, di mettere il loro nome su qualsiasi pergamena, usando il loro stesso sangue. Troppi artisti americani, siano essi cantanti, pittori, musicisti, scrittori, sono capaci di qualunque stramberia per costringere i giornali a parlare di sé e per guadagnarsi un posto sul video. L’arte informale, (una specie di negazione di se stessa perché l’arte è sempre formale) è nata laggiù con Jackson Pollock, nel 1946. Prima di allora egli era un buon pittore, anzi ottimo, ma non riusciva a sfondare. Poi cominciò a versare il colore su tele con vasetti bucati da un chiodo, o a usare tecniche consimili, e così diventò noto in tutto il mondo anche se cessò di essere un pittore autentico, ossia cessò di dipingere come sentiva. Agli artisti americani, troppo spesso, non importa nulla della sincerità, dell’autenticità che è un po’ la conditio sine qua non dell’arte. All’americano in genere interessano la notorietà e i soldi. Per arrivarci riesce a scalare pareti di sesto grado superiore. Riesce a tutte le dismisure. A tutte le iperbole, a tutti gli estremismi; non disdegna la violenza, i ricatti, le simulazioni, i malocchi, le stregonerie, e messe nere, gli scandali. L’importante è riuscire a far parlare di sé, colpire l’immaginario della gente, e trascinarsela dietro.L’America è anche il paese delle stramberie, delle americanate, e in proposito ricordo un bel libro di Emilio Cecchi, America amara, scritto nel Quaranta. Già allora gli Stati Uniti erano il paese dei primati balordi. Ricordo il caso di un tale che si era fatto raccoglitore di sterni di pollo. Non si potrebbe scegliere un oggetto più sciocco da collezionare, ma in quel modo un cittadino qualsiasi riuscì a far parlare di sé i giornali di tutto il mondo. Una volta vidi un film il cui tema era, appunto, il sogno americano (gli americani migliori hanno la coscienza ben viva di questo triste fenomeno). La fine era terrificante. Poiché il protagonista cercava invano il successo per duemila metri di pellicola, senza riuscire a coglierlo, negli ultimi si spargeva di benzina e cercava di darsi fuoco. Un lugubre ricatto. Poiché nessuno gli badava, lo fece per davvero. E’ certo il colmo in cui un cercatore di successo può giungere, perché per conseguire la cosa tanto bramata, distrugge ciò che serve per apprezzare il successo: la vita e la coscienza. Quel film mi ricorda la storiella di quel tale che faceva collezione di figli, e ne aveva di tutti i tipi e di tutti i colori. Gli mancava soltanto il figlio postumo, e per averlo si sparò.In America adesso va di moda lo studentello che si porta a scuola il revolver, e poi massacra un gruppo di compagni e qualche professore che gli è antipatico. Conseguenze dell’odio e della violenza? Anche. Ma soprattutto del gusto di far parlare di sé. Il nome di chi ammazza parecchi coetanei in una scuola è senza dubbio destinato a far il giro del mondo. E’ il risultato di uno squallore etico pauroso. Anche la letteratura americana è spesso una grande rappresentazione di quel sogno spaventoso.La letteratura statunitense del primo Ottocento è ancora di matrice europea. Poe, Melville, Hawthorne, Thoreau, Emerson, Dickinson sono ancora per buona parte scrittori europei. Per cominciare a parlare di letteratura autenticamente americana arrivare a Stephen Crane. Jack London, Walt Whitmann, Mark Twain, Theodore Dreiser. Ebbene, tutti costoro già coltivano il sogno americano. Primeggiare in qualche maniera, magari come cercatori d’indiani, scrittori, geni dell’economia. L’importante è essere primi, avere una catena di negozi, un trust, vantare un primato prestigioso. Jack London è un grande scrittore popolare, e i suoi primati sono conseguiti non tanto da uomini in competizione tra loro, quanto in lotta contro la natura, per sottometterla. Bisogna riconoscere che gli americani dell’Ottocento ebbero la necessità di avere un gran concetto di sé e una buona dose di fegato e di costanza per conquistare la natura selvaggia del West e poi dell’Alaska. Senza il sogno americano forse l’impresa non sarebbe stata possibile. Però il complesso del primato è rimasto incollato all’anima americana per sempre. Chi l’ha rappresentato in maniera più convincente è Dreiser. E’ il suo grande tema. Tutti i suoi personaggi sono in genere degli ambiziosi. Il più tipicamente americano è Cowperwood, il protagonista del Titano: è la crescita enorme di un personaggio dell’alta finanza, e la crescita di una città, Chicago. Ma Dreiser sa che spesso un’ambizione di questo tipo può condurre alla morte, e scrisse una tragedia americana. E mentre per molti quel sogno, francamente detestabile, è il fiore all’occhiello della cultura americana, per altri statunitensi è soltanto fonte di stupendi drammi. Penso a certi film di Capra, come La vita è meravigliosa, o Morte di un commesso viaggiatore, di Arthur Miller, che nel personaggio di Billy Loman ha rappresentato le squallide conseguenze di quel sogno famigerato.

Autore: Carlo Sgorlon