MUSEO, parola arcigna. Che cosa c’è di insinuante e di attraente nel museo? Dov’è nascosto il virus della sua seduzione? Non è detto che le impennate dei visitatori coincidano con le impennate del gradimento. Il museo spesso è un obbligo, chiedetelo alle scolaresche e ai coatti del turismo di massa. E se qualcuno, per libera scelta, si avventura fra stanze anguste e male illuminate, davanti alle teche impolverate o fra i tesori affastellati per mancanza di spazio, ebbene costui può passare per eroe. Poiché il museo italiano è deprimente, inerte, scomodo, punitivo, muto. Direte: ma può avere la parola, un museo? Risponderemo che deve averla, se vuol essere vivo. E la parola, quando è il caso, può conquistarsela in vario modo, per esempio utilizzando le arti che di.solito non varcano le sue austere soglie. Prendiamo il Forte di Exilles, in Val di Susa. E’ diventato museo non solo di se stesso, ma delle uniformi delle truppe alpine che, nel corso dei secoli, qui vissero e combatterono. In tre mesi, quarantacinque mila visitatori: il museo piemontese più frequentato, dopo quello del Cinema. Perché questo successo? Forse perché vi ha messo mano un uomo di teatro, Richi Ferrero? Ciò che si vede a Exilles è un piccolo, folgorante esperimento. Invece di esporre le divise alpine sotto vetro e con la monotona serialità di un deposito sartoriale, queste vengono fatte " vivere" . Rivestono corpi che non sono semplici manichini, ma figure ottenute gramolando la stessa pietra grigia con cui è stato costruito il Forte. Nella parte più rigidamente espositiva, questi uomini di pietra obbediscono a qualche impulso dinamico, individuale o collettivo. Ma c’è una zona in cui il soldato di pietra ritrova un’eco della propria ipotetica vita. In sei nicchie dedicate alla roccia, al ferro, al ghiaccio, alla nebbia, alla neve, alla notte, ogni soldato ci offre il proprio modo di vivere e di soffrire. Se possibile, la propria anima. La nicchia è un microcosmo assoluto che grazie al teatro vive. Non in modo fieristico, ma con gli strumenti del teatro-immagine, anzi del Gran Teatro Urbano, secondo la sigla artistica di Richi Ferrero. Ed ecco che, giocando di specchi, che svelano a intermittenza parti nascoste della figura o della composizione; con un uso sagace dell’illuminazione; con l’irruzione di suoni improvvisi, quali gli stridii degli uccelli predatori o il pigolio domestico delle galline; con il lampo di un’inserzione fotografica, con lo squarcio d’un tuono, nasce davvero un mondo. E vediamo per esempio un capitano che, abbandonato su una sedia, riesce a dar corpo ai ricordi e alla nostalgia di casa riflessi sul tavolino accanto a lui. Ecco. Il miracolo del museo che parla lingua umana è avvenuto. Il museo ci ha aperto e ha fatto pulsare un mondo. Quando ne usciamo, non sappiamo se siamo stati spettatori di un miraggio o vittime di un trucco dell’inconscio. Ma conta qualcosa il saperlo?
Autore: Osvaldo Guerrieri
Fonte:La Stampa