ICOMOS: No cara Italia no: così non va.

Nel rapporto annuale, il “Consiglio Internazionale per i Monumenti e i Siti” sgrida l’Italia per la politica sulla conservazione del patrimonio architettonico e archeologico. Un severo articolo considera a rischio le nostre strategie.

Nel rapporto per il 2004-2005 sullo stato di conservazione del patrimonio architettonico e archeologico mondiale pubblicato dal Consiglio Internazionale per i Monumenti e i Siti (Icomos), compare un severo articolo sulle strategie in atto in Italia, che prende in analisi alcuni provvedimenti legislativi e proposizioni finanziarie già in passato ampiamente criticati per i possibili impatti negativi, nonché per la loro discutibile efficacia. L’articolo, accessibile sul sito web dell’Icomos, http://www.international.icomos.org/risk/index.html , affronta i temi dello sviluppo illegale e della speculazione edilizia, purtroppo note negative della storia contemporanea d’Italia, e della annunciata quanto “auspicata” privatizzazione di patrimonio e paesaggio.

Come è noto, la fine della seconda guerra mondiale fu lo spunto per uno sviluppo edilizio incontrollato, proseguito negli anni del boom economico, cui si rispose con un primo inopportuno condono edilizio nel 1985 che sanciva ufficialmente l’accettazione alla devastazione del territorio. Ad esso fece seguito un secondo condono edilizio nel 1994 a sanare il persistente abusivismo ormai senza giustificazioni post-belliche, fino all’annuncio nel 2003, del terzo condono, forse il peggiore, poiché comprensivo degli edifici illegali in suolo pubblico. Quest’ultimo peraltro convalidato dall’emendamento dell’articolo 181 della legge sui beni culturali, in data 1 maggio 2004, che permette il condono delle costruzioni illegali in aree protette purché non costruite dopo il 30 settembre 2004: una sorta di monito a sbrigarsi!

Il condono edilizio: negativo sotto ogni aspetto

Da un punto di vista sociale, tale fenomeno favorisce la criminalità organizzata, che spesso sfrutta il processo speculativo edilizio come strumento di riciclaggio del denaro; inoltre, l’accettazione dell’illegale crea inevitabili ineguaglianze tra i cittadini, per di più privilegiando i meno rispettosi della legge. Non da ultimo, tale provvedimento ridimensiona il carattere equo e incorrompibile della legge sui beni culturali, che presuppone la condanna in caso di illegalità contro il patrimonio.

Sul piano economico, il presunto incasso proveniente dal condono risulterebbe infinitamente più basso rispetto al costo infrastrutturale sostenuto dalle autorità locali per mettere a norma gli edifici illegali: non solo si accetta il depauperamento urbano e territoriale, ma addirittura ci si deve investire in infrastrutture! A ciò si aggiunge il sovraccarico nella gestione delle pratiche del condono presso le Soprintendenze, che rischia di rendere meno rigorosi i controlli, con irreversibile danneggiamento del tessuto urbano e territoriale e il rischio di disastri ambientali dovuti all’edificazione non pianificata. Inoltre si avrebbe come conseguenza la forzata diminuzione degli investimenti nel settore dell’architettura di qualità in virtù della ridotta disponibilità del suolo, la presenza di costruzioni mediocri ma a basso costo, mentre molti degli edifici frutto del boom speculativo potranno essere presto posti sotto vincolo in quanto aventi più di cinquant’anni. La positiva, quanto isolata legge quadro sulla qualità architettonica del 27 febbraio 2004, appare quantomai impotente.

Una privatizzazione malconcepita in un quadro disastroso

Il proposito del Governo italiano di vendita di parte del patrimonio culturale e ambientale è stato concepito con la creazione di una nuova società, la famosa Patrimonio Spa, alla quale vengono trasferiti i beni tramite un decreto del Ministero delle Finanze. Tali proprietà possono essere vendute o date in concessione a privati; in alternativa, il Ministero delle Finanze può trasferire questi beni a un’altra Società, la Infrastrutture Spa, per ottenere prestiti dalle banche (la cosiddetta cartolarizzazione) che diventano così proprietarie dei beni. Questo processo comprende aspetti che lo rendono potenzialmente disastroso: tra di essi la mai chiaramente smentita possibilità di vendita di beni di alto valore culturale e la ormai nota clausola dei 120 giorni, nota anche come silenzio-assenso, secondo la quale le Soprintendenze dovrebbero esprimere parere favorevole o sfavorevole alla vendita del bene tassativamente entro 120 giorni dalla richiesta, pena l’assenso alla vendita. Questa clausola appare ridicola se si considera la mole di lavoro amministrativo che già affligge le Soprintendenze, e il fatto che non esiste in Italia un inventario completo del patrimonio culturale, sia esso di interesse elevato o relativo. Nella Finanziaria 2005 si è proposto all’articolo 30 la concessione a privati di edifici contro il pagamento di un affitto, con la prospettiva che essi vengano conservati secondo gli standard richiesti: il controllo di questi interventi di restauro conservativo spetterebbe alle Soprintendenze, per le quali tuttavia non si è previsto né aumento di personale né di risorse finanziarie, utilizzabili almeno per contrattare tale personale: ciò fa sì che una proposta potenzialmente positiva si tramuti in una misura effettivamente disastrosa per l’incontrollabilità degli interventi. Si pensi solo alla vendita a trattativa privata delle Manifatture Tabacchi e alle dannose concessioni edilizie nelle Eolie secondo la legge regionale 2001.

La gestione del patrimonio culturale non può dipendere dalla necessità di risorse economiche e prescindere dalla figura garante dello Stato, il quale deve piuttosto alimentare forme di collaborazione orizzontale e verticale, tra pubblico e privato a differenti livelli, e ammettere le potenzialità del patrimonio culturale quale strumento di sviluppo integrato e sostenibile, basato su principi economici ma anche sociali e culturali.

Autore: Di Marco Acri e Andrea Baldioli (Icomos Italia), Gaetano Palumbo (Icomos Regno Unito)

Fonte:Il Giornale dell’Arte