I musei italiani sempre più diffusi.

L’Italia è in questo momento (è già da qualche anno) un laboratorio museale di sorprendente creatività: soprattutto al centro nord. In queste regioni italiane si sta facendo a grandi passi un modello di museo che, malgrado le difficoltà che la nostra lingua ci frappone nel divulgarlo, potrebbe avere il seguito e l’importanza che nel terzo quarto del XVIII secolo che ebbe il modello di museo illuminista nato a Roma tra villa Albani e ilmuseo Pio Clementino in Vaticano. Quello che sarebbe diventato il museo moderno e che Ludwig I invocava per Monaco di Baviera ordinando al suo architetto Leo von Klenze: «Wir mussen auch zu Munchen haben was zu Rom Museo heisst» (Dobbiamo avere anche a Monaco quello che a Roma chiamano Museo). Tre appaiono le tendenze, le tipologie di museo diffuse agli inizi del XXI secolo: il primo è il museo spettacolo (del quale abbiamo esempi splendidi nel XX secolo con i capolavori di grandi architetti negli edifici-museo di Bilbao, di Francoforte, di Londra; ed esempi altrettanto definibili come opera d’arte globale nel XIX secolo a Monaco, Berlino, San Pietrobùrgo); il secondo è il museo high-tech, rappresentato soprattutto dai nuovi musei storici tedeschi, canadesi, giapponesi, dove la storia è spiegata con tecnologie ed effetti teatrali multimediali; il terzo è il museo locale, il museo che nasce dal genius loci di un luogo; un museo che in Italia, data la stupefacente presenza di grandi capolavori d’arte nei paesi anche più piccoli, diventa meta di laboriosi pellegrinaggi. Sono i casi già mitici dei piccoli musei toscani (il sistema dei musei senesi, tra i quali un capolavoro assoluto come il Museo Archeologico dell’Ospedale di Santa Maria della Scala a Siena), e dei moltissimi musei lombardi, cresciuti in un quarto di secolo dai 70 del 1972 ai 470 di oggi. Tra questi, il sistema dei musei della «via dei metalli» che recupera le miniere romane antiche da Bergamo a Broscia e che ha visto un piccolo paese di 320 abitanti, Valtorta, raccogliere 770 mila euro da privati, enti pubblici e Unione Europea per realizzare un percorso tra le vie e le case dei vecchi minatori che ha riportata nel paese gli abitanti; e il sistema dei musei del «grande fiume», che collega tra loro 20 paesi del Po per recuperare e restaurare i vecchi manufatti delle tecnologie fluviali, riattivandoli e ripopolando i paesi con attività di bonifica, studio, ricerca, convegni. Per aiutare i tanti musei locali la Regione Lombardia ha investito in opere strutturali 450 miliardi in 10 anni.Nel territorio italiano questo museo diffuso realizza finalmente il sogno della ricomposizione dei saperi: saperi storici, saperi artistici, architettonici, scientifici, materici. Tra Lombardia e Piemonte avanza una vera e propria rete di musei e archivi delle imprese (l’archivio del Corriere della Sera darà vita a un Museo dell’informazione) a Milano, 16mila mq che conserveranno anche gli archivi del Giornale; l’Azienda Energetica Aem a un museo dell’energia che dalla Valtellina raggiungerà Milano Bonvisa; un museo della motocicletta si compone intanto con le collezioni della società Edisport; un museo diffuso del Design si coordina a cura della Triennale tra le tante collezioni milanesi, lombarde, ecc.

Non si tratta nel caso italiano di conservare accanto ai grandi capolavori anche tutto l’immenso tessuto di oggetti della storia e della cultura materiale che sono ovunque disseminati e che rendono speciale il nostro Paese. Per di più in Italia l’investimento in cultura è ormai (fortunatamente) diventato popolare e ha confermato che i cittadini riconoscono nella cultura l’identità collettiva; non importa quanti e quali di questi cittadini frequentino effettivamente musei, mostre, biblioteche, teatri, concerti; sempre più persone ne sentono la responsabilità e sanno che le istituzioni culturali esistono e devono esistere nell’interesse di tutti; essi sanno che nella loro città la cultura e il patrimonio culturale devono essere un’eredità curata e condivisa dalle pubbliche amministrazioni. Potrei citare innumerevoli episodi che negli anni Sessanta e Settanta ci sarebbero sembrati impossibili.

Radio Popolare di Milano (emittente storica della città da 25 anni e quest’anno premiata dal sindaco con 1′ «Ambrogino d’oro») ha da tempo attivo un programma della domenica mattina che si intitola MuVi (Museo virtuale) e che raccoglie dalle telefonate e dai messaggi e-mail degli ascoltatori testimonianze, memorie e immagini (trasmesse via scanner e posta elettronica) della vita e dei ricordi familiari, civici, storici di chiunque abbia qualcosa di significativo da comunicare su modi di vivere e su fatti storici e sociali locali o generali della città e della provincia. Questo archivio è disponibile su Internet e si arricchisce continuamente: è un nuovo tipo di museo storico.

A Volpedo nel settembre 2001, in occasione del centenario del celebre dipinto di Pellizza, il «Quarto Stato» (icona di Milano e del Novecento), il Comune della cittadina piemontese ha rinnovato studi e ricerche sul suo artista e ha trovate tutti i discendenti dei personaggi, raffigurati facendoli intervenire in una sorta di teatro della, memoria; il Comune di Milano ha prestato il grande quadro per qualche tempo; perfino il pavimento della piazza del Municipio è stato trasformato per ricostruire a terra le posizioni delle figure del grande corteo, la «fiumana» dei poveri, dei lavoratori, dei nuovi soggetti sociali che avrebbero animato con le loro lotte il nuovo, secolo.

In Italia il territorio è museo, la città è museo; anche le diocesi stanno creando i propri sistemi di tutela e fruizione dei beni culturali ecclesiastici. La Regione Lombardia ha individuato nel ‘sistema museale’ il modo migliore per gestire un servizio che la Regione stessa ritiene importante quanto il servizio sanitario, i servizi educativi, le biblioteche, gli uffici pubblici. La Regione Lombardia vuole fortemente migliorare questo servizio costringendo i Comuni ad assumere personale qualificato, emanando per tutti i 470 musei e raccolte lombarde una «carta del rischio» che ne individui difetti e potenzialità; vuole garantire le tre grandi funzioni museali: ricerca-catalogazione, tutela-conservazione, educazione-valorizzazione.

Di fronte a questo modello italiano, in totale (epocale) contrapposizione, si aprono a Las Vegas le sedi in franchising del Guggenheim e dell’Ermitage: i casinò scommettono su questa pariglia, titola l’articolo di Mark Irving del «Financial Times» del 27 ottobre 2001. La forte luce del sole del Nevada filtra dagli shed del tetto di un edificio interno dell’hotel Venetian attraverso un soffitto di lamelle alla veneziana che replica la volta della Sistina. Gli autentici dipinti del museo russo condividono gli spazi con il regno del falso e dell’assurdo nel casinò della porta accanto. Niente di male, e niente di nuovo; perché scandalizzarsi? Ma questo modello di museo è ormai vecchio di un secolo e mezzo; appartiene alla tradizione americana dei Bamum Museums, dei «dime museums» del secolo XDC, che sbalordivano i visitatori con pezzi e meraviglie di ogni genere (comprese donne barbute e sirene); una tradizione che ha anche visto episodi fenomenali come il camposanto museo di Forest Lawn (che piaceva tanto negli anni Settanta a Umberto Eco e a Francis Haskell) e la villa di Hearst sulle colline svizzero-californiane di San Simeon.

Ma l’Europa, e l’Italia, hanno tradizioni e modelli diversi.

Autore: Alessandra Mottola Molfino

Fonte:Giornale dell’Arte