Giorgio FRANCHETTI: aveva nel Dna la passione per l’arte. Collezionista militante introdusse in Italia l’arte americana.

Intervista di Francesca Romana Morelli.

Discendente di un’antica famiglia che commissionò la Ca’ d’Oro a Venezia, Giorgio Franchetti aveva nel Dna la passione per l’arte: suo nonno forma una collezione d’arte antica, donato poi da suo padre alla Ca’ d’Oro di Venezia. Pilota d’aviazione durante l’ultima guerra, si laurea in Ingegneria. Negli anni ’50 entra in società con il gallerista Plinio de Martiis, che dirige «La Tartaruga». Diviene un collezionista «militante», vende la maggior parte della sua prima raccolta conservando solo Giacomo Balla, e si concentra sui giovani Tano Festa e Cy Twombly, poi la Scuola di Piazza del Popolo, Enrico Castellani e Piero Manzoni. A Roma conosce Robert Rauschenberg e presto diventa una formidabile testa di ponte con gli Usa: nel 1957 a New York frequenta Ileana Sonnabend, Sidney Janis, Alfred Barr, James Sweeney. Leo Castelli lo accompagna negli studi di Franz Kline, Mark Rothko, Willem De Kooning, Robert Motherwell. Torna In Italia con numerose loro opere, che espone da Plinio De Martiis. Nel 1958 La Tartaruga apre così la prima personale di Kline in Europa. Sempre al ’57 risale l’incontro con il giovanissimo Cy Twombly, che negli Usa non riesce a farsi strada, perché considerato un epigono dell’Action Painting. D’accordo con De Martiis, decide di sostenerlo con un contratto (l’unico fatto a un artista dalla galleria). In seguito Franchetti amplia la collezione anche con opere di alcuni esponenti dell’Arte Povera (Alighiero Boetti, Giovanni Anselmo), della corrente concettuale, della Transavanguardia, fino alle ultime generazioni, come Felice Levini, Gianmarco Montesano e Tommaso Lisanti.

L’intervista (inedita) che segue è stata raccolta lo scorso anno.

Barone Franchetti, lei come si definirebbe rispetto al ruolo da lei sostenuto? Un eclettico?

Nella vita ho messo ciò più mi appassionava sempre davanti a tutto. Ho iniziato combattendo come pilota d’aereo nel Quarto stormo caccia durante l’ultimo conflitto, ero una dimostrazione vivente delle profonde contraddizioni storiche che laceravano l’Italia: ero pilota per divertimento e non per amore di Patria. Poi avrei desiderato diventare pittore, ma presto ho capito che mi mancavano le idee. Allora ho seguito la strada dell’Ingegneria civile, animato dalla convinzione che ciò che funziona è bello e viceversa. I risultati si videro ad esempio in una fabbrica che misi in piedi a Catania; producevamo delle motozappe di un alto livello tecnologico, ma quell’impresa mi mandò quasi in rovina. Ho anche costruito delle strade in Liberia.

Che cosa la spinse a puntare sui giovani artisti?
Alla fine degli anni ’50 entrai in società con Plinio De Martiis. Il primo pezzo che ho comprato di Tano Festa lo vidi proprio in una collettiva da Plinio. Presi subito anche dei lavori di Schifano e di Franco Angeli.

Perchè all’epoca rimase così affascinato da Tano Festa?
Oggi so perchè ho acquistato «Persiana Rossa» del 1962. Tano è un poeta della morte, i suoi lavori come questi altri sempre del ’62, «L’obelisco» e «Lo studio per pianoforte» sono un prodotto psicosomatico della sua malattia: egli trascorreva lungo tempo sveglio, guardando le cose intorno a sé immerse nella penombra o nell’oscurità della stanza.

Come ricorda Cy Twombly?
Lo conobbi nel ’57 a pranzo dal mio amico Alvise de Robilant e da sua moglie, la modella americana Betty Stones. Era bello, elegante ed esibiva un’aria molto distaccata. Dopo pranzo mi fece vedere dei suoi disegni: rimasi folgorato, quegli «scarabocchi» erano carichi di una vibrazione psichica ed emotiva così forte, che ricevetti come una scossa elettrica. Però il suo lavoro era imbevuto di cultura classica, di una profondità dell’impulso, che sicuramente aveva assimilate da pittori come Mario Schifano. La conoscenza dei disegni di Twombly mutò subito e sensibilmente la mia visuale artistica.


Alla fine l’America e la Pop Art riportarono una vittoria schiacciante su tutto il fronte. Come visse questo momento?
In Italia non avevamo la forza di resistere alla carica di cavalleria che fece l’arte americana di quegli anni. Io, che non volevo essere corresponsabile della sua vittoria sancita dal premio a Rauschenberg alla Biennale di Venezia nel 1964, vendetti tutti i pezzi d’arte americana nella mia collezione, tranne quelli di Twombly e di Kosuth. Mi sentivo una delle cause prime, anche se in modo involontario, dell’introduzione dell’arte americana in Italia.

A suo giudizio, si poteva fare qualcosa per gli italiani in quel momento?
Non si poteva fare nulla. Bonito Oliva organizzò «Amore mio» a Montepulciano, «Vitalità del negativo» e «Contemporanea» a Roma. Nonostante questo tipo di operazioni, l’Italia non ce la fece, perchè l’America era così unita, compatta in un sistema formidabile. Un artista come Jannis Kounellis alla fine ha dovuto lavorare per sedurre il mercato americano e straniero, ha messo l’astuzia greca al servizio della sua arte; ma io ho dato via tutti i suoi lavori, perchè ha ottenuto un riconoscimento che offusca l’opera straordinaria di Festa e degli altri.

Nella collezione ci sono anche dei lavori delle ultime generazioni?
Si, ma non ho ancora trovato qualcuno che mi abbia sedotto completamente. «L’orologiaia sacra» è un quadro che Lisanti ha finito in mia presenza nel suo studio, per me rimane tuttora un quadro incomprensibile, la figura dell’aliena sembra che venga dallo spazio, è questa la vera dimensione alla quale esso appartiene, come quella di Festa era la storia.

Fonte:Il Giornale dell’Arte