Chi governerà il patrimonio italiano. Un documento della Conferenza delle Regioni propone a Urbani anziché una divisione dei poteri, una vera alleanza tra Stato, Enti locali e privati. Per il presidente Ghigo, se Urbani vorrà, possibile entro l’estate l’accordo.
Il suo piglio iniziale liberalizzatore e privatizzatore aveva creato apprensioni per l’eccessiva disinvoltura (e mortificato anche molte speranze): oggi il ministro Urbani, forse perché ferito da quelle dure reazioni, appare fin troppo cauto, quasi intimorito. Invece di un allargamento a forze e risorse nuove e fresche che verrebbero dal decentramento, si teme un possibile riflusso centralista, uno stand by conservatore, anziché liberalizzante verso un vero coinvolgimento dei privati (ben diverso dalla temuta cessione in bianco).Come si orienterà la politica del Ministero, specialmente per quanto concerne i compiti di tutela e la delega periferica, regionale? Ci saranno novità sulla riforma molto attesa della gestione dei musei, resi autonomi, basata su una compartecipazione tra pubblico (lo Stato ma con gli Enti locali: Regioni, Province e Città) e privati (in pratica le locali fondazioni bancarie con indirizzo culturale)? E’ un’attesa sentita della società contemporanea quella di una gestione più efficiente (ma non “impresariale”) dei musei italiani e di allineamento ai sistemi di governance più avanzati dei musei di altri Paesi.Abbiamo interpellato tre esponenti delle entità coinvolte: il ministro Giuliano Urbani, il presidente della Conferenza delle Regioni, Enzo Ghigo, e un qualificato rappresentante dei principali interlocutori privati, le Fondazioni bancarie, Piero Gastaldo, direttore di una delle fondazioni più attive, la Compagnia di San Paolo.
Onorevole Ghigo, perché considera così importante il memorandum elaborato dalla Conferenza delle Regioni, che avete inviato al Ministero ma non ancora reso pubblico?
Secondo noi si tratta di un documento importantissimo, perché segna una svolta di 180 gradi nella politica storica delle Regioni. Dalla loro origine negli anni Settanta, le Regioni hanno chiesto (anche se non hanno mai ottenuto granché), poteri forti nella tutela dei beni culturali dal punto di vista sia legislativo che amministrativo. Oggi, con questo documento accettano, anzi sostengono il fatto che il potere legislativo sulla tutela sia una funzione dello Stato, ma propongono contestualmente di rafforzare questa azione non lasciando le Soprintendenze sole ad espletare tale attività. Dichiariamo la nostra disponibilità e la necessità che le pubbliche Amministrazioni e tutti i proprietari dei beni cooperino alla tutela del patrimonio. La salvaguardia della ricchezza nazionale deve vedere nello Stato il “garante”, ma richiede l’energia e la partecipazione del più ampio numero di soggetti.
Perché presentare questo documento proprio adesso?
Il momento è decisivo. Il Ministro intende revisionare il Codice delle leggi in materia di Beni culturali per attuare il nuovo art. 117 della Costituzione. Giuliano Urbani ha richiesto il concorso delle Regioni, e noi non potevamo negare il nostro contributo, né arroccarci su posizioni tradizionali e conservatrici, forse un po’ velleitarie, talvolta sterili. Per questo vogliamo assumere tutte le nostre responsabilità e offrire le nostre competenze e capacità rinunciando a pregiudiziali rivendicazioni di compiti e di poteri. La nostra è anche una risposta alle preoccupazioni espresse da certe parti dell’opinione pubblica (penso a molte associazioni culturali e ambientaliste, professori e autorevoli storici dell’arte) che hanno segnalato, qualche volta a torto ma talvolta a ragione, rischi di frammentazione territoriale dell’attività di tutela, o una possibile mancanza di rigore in quella di valorizzazione.
Che cosa proponete dunque?
Che lo Stato, attraverso la sua attività legislativa e attraverso l’azione del Ministero espressa a livello nazionale e periferico, garantisca unitarietà e rigore nella tutela e vigili con la competenza, che gli è propria, nella salvaguardia del patrimonio. Ma diciamo anche che lo Stato non ha la possibilità, da solo, di conservare e tutelare il patrimonio se i possessori (siano essi i Comuni, le Province, le Regioni o i privati) non gli danno una mano in questa azione quotidiana. Che si affermi dunque una cultura nazionale della tutela che non sia espressione di pochi, valorosi funzionari di Soprintendenza, ma che sia la cultura “abituale” di ogni livello di responsabilità sul patrimonio pubblico e privato. Insomma, tutelare un bene non deve più essere solo un’autorizzazione, ma deve diventare una mentalità.
Adesso che cosa farete?
La Conferenza dei Presidenti ha già trasmesso al Ministero il documento chiedendo l’apertura di un confronto, e Urbani mi ha già dato la sua piena disponibilità per la ricerca di convergenze. Credo che la discussione si possa sviluppare entro giugno-luglio. Un accordo potrebbe raggiungersi entro la fine dell’estate.
E se lo Stato non accettasse?
Nulla mi fa pensare che non sia possibile raggiungere un’intesa. Devo dare atto al ministro Urbani di avere avuto già in altre occasioni la capacità di saper sfruttare tutte le opportunità che può offrire la concertazione istituzionale fra Stato e Regioni. E credo che, vista la disponibilità del Ministro, il confronto andrà avviato anche con i Comuni e le Province con cui già si intrattengono buoni rapporti. Decisivo sarà anche ascoltare l’opinione, e ottenere il consenso, di quel mondo, fatto di Associazioni, Enti e privati, spesso molto attento al patrimonio culturale.
E’ un’apertura alla collaborazione e per una concreta applicazione del principio di sussidiarietà, Sono però necessari investimenti molto consistenti, non solo da parte di Regioni, Province e Comuni, ma anche da parte delle Fondazioni ex-bancarie, ormai tra i protagonisti dello scenario culturale.
Non mi pare pensabile che, a fronte delle risorse finanziarie, delle competenze, delle capacità e delle energie che insieme dichiariamo di volere investire sulla cultura, sia possibile rispondere: “No, grazie!”.
Dottor Gastaldo, per le fondazioni ex-bancarie è importante un accordo tra lo Stato e le Regioni?
Direi di sì, ma partirei da un quadro che vada oltre questi due pur fondamentali soggetti. In questi anni le Fondazioni bancarie sono diventate tra i più importanti finanziatori del sistema. La quantità delle risorse messa in moto dalle fondazioni, sommata alle risorse di Enti locali e Regioni, del fund-raising diffuso, e a quella, ahimè ridotta, che viene dal settore for profit, nell’insieme è dignitosamente confrontabile con la spesa dello Stato.
Il che può essere visto in due modi: raddoppio degli investimenti culturali o dimezzamento del fabbisogno statale.
Certo non auspico un gioco a somma zero; ma non mi fermerei al tema delle risorse. Un sistema così differenziato dovrebbe determinare poteri di gestione altrettanto differenziati. Mi parrebbe logico che le regole fondamentali riconoscessero il pluralismo, non solo di finanziamenti, ma anche di apporti culturali, che si è instaurato negli ultimi anni. L’aspettativa che abbiamo è di vedere riconosciuto, in un quadro di governance, il ruolo che noi e altri effettivamente svolgiamo. Ci sembra che la linea di tendenza avviata con le riforme Veltroni-Melandri, ridefinita in senso innovativo dal Ministero urbani, vada in questa direzione. Speriamo ci si muova con fiducia e rapidità.
Ma come si può incoraggiare il Ministero ad accelerare la velocità dei cambiamenti?
Il punto e: quale obiettivo può avere l’evoluzione del sistema di governo dei Beni Culturali? Se, come si è sempre detto, si tratta di garantire ad un tempo tutela, valorizzazione e accessibilità dei beni, a partire dai musei, è necessaria una ridefinizione di professionalità, funzioni e “mestieri” del e nel museo, ridefinizione che deve partire dalle specificità legate a ciascuna situazione, usando strumenti quali le fondazioni.
Lei vuol dire che se ogni istituto culturale ha una sua specificità locale, la fondazione che lo gestisce è l’abito tagliato su misura per lui.
Infatti. Aggiungo che non vedo una differenza radicale tra l’autonomia gestionale e il tema “fondazioni”: sono modi per affrontare una sola esigenza, quella di dare soggettività e autonomia. Un modello fondazione è necessario dove esistano certe caratteristiche del bene, ad esempio la sua complessità, il rapporto con un sistema o un distretto, e soprattutto dove sia forte e vitale il mondo che in quel bene si identifica e che alla tutela di quel bene contribuisce; anche finanziariamente.
Ma lo Stato non può far tutto. E ogni città d’Italia ha eccellenti capacità che è un delitto non sfruttare.
D’altronde la peculiarità del patrimonio italiano nasce proprio dal fatto che l’Italia era ed è il Paese delle cento città.
Infatti. Le attività di ordinaria gestione del bene, in un quadro alla spagnola, possono essere svolte da Enti regionali, locali, privati. Insomma, c’è un sistema nel quale esiste un’alta sorveglianza da parte dello Stato, che nessuno mette in discussione. Ma non c’è motivo per cui lo Stato debba estrinsecare la sua sorveglianza in un persuasivo potere di gestione. Anzi, è tanto più opportuno concentrare le proprie risorse sulla tutela di ultima istanza (la garanzia del bene), senza essere presi da miriadi di compitini che si rivelano inadatti alle strutture statali, difficili da gestire con le risorse finanziarie statali, asimmetrici rispetto alle competenze professionali delle strutture statali.
Tutti dicono che nessun Paese sarebbe in grado di governare un patrimonio vasto come quello italiano. Che interesse avrebbe lo Stato a voler fare tutto da solo?
E infatti non lo fa. E’ poi difficile pensare che le circostanze della salvaguardia/valorizzazione di un bene siano prive di relazioni con le circostanze sociali in cui quel bene è nato. Vediamo come è nata la grande arte storica (e come nasce oggi): certo non è stata il risultato, nemmeno in società assai meno libere della nostra, di implacabili forme di centralizzazione, ma di processi variegati nei quali hanno interagito committenti e mecenati, comunità locali, confraternite e parrocchie, famiglie e istituzioni. Anche tutela e valorizzazione sono fatti sociali. Non possono prescindere dalla percezione da parte di una comunità del valore di un bene. Non si esauriscono in una sequenza di atti tecnici dei restauratori o di atti formali degli uffici. E’ utile riconoscere sul piano delle regole che l’allargamento dei confini della tutela è un fatto sociale importante degli ultimi decenni.
E’ ben strana l’idea che una burocrazia toscana o piemontese possano essere meno sensibili di una burocrazia centrale alla tutela dei beni della Toscana o del Piemonte.
E’ un argomento forte, così storicamente constatabile, che non si capisce perché non dovrebbe avvenire questo coinvolgimento.
Ma allora quali sono gli impedimenti? Paure? Potere?
Come sempre le novità portano scompiglio: è possibile prevedere una reazione a qualunque tipo di riforma, anche ragionevole, serena e graduale. Tuttavia in questo caso c’è un insieme di riflessi profondi ispirati da ragioni da tenere in considerazione. La grande cultura della tutela è nata in Italia in un momento nel quale la definizione del ruolo dello Stato era ben diversa da quella che oggi uno spirito liberale accetterebbe; ma ha generato elementi culturali alti, validi: ebbene, è un patrimonio di preoccupazioni da incorporare nella riforma, come mi pare stia avvenendo. Insomma, la paura di conseguenze deteriori si alimenta di “horror stories”, vere, certo, che riguardano però errori tanto di amministrazioni locali quanto di organi dello Stato. Ma mi pare indimostrabile che il tasso di infallibilità cresca ove le decisioni siamo prese escludendo soggetti molto rilevanti.
Peraltro un effettivo centralismo sarebbe una mostruosità giuridica: lo Stato agendo solo è il solo controllore di se stesso.
Nei restauri che le fondazioni ex-bancarie hanno promosso abbiamo deciso priorità, compiuto studi, commissionato progetti, sostenuto l’effettiva erogazione delle risorse, verificato e diffuso i risultati. E’ tutela, o valorizzazione? Non lo so, ma certo non si è in competizione con lo Stato. Ovviamente per tutto questo chiediamo pareri delle Soprintendenze, con cui dialoghiamo fruttuosamente, di continuo. E la Soprintendenza può, anzi deve chiedere chiarimenti sui criteri che adottiamo e verificare i risultati dell’intervento. Ma se dovessimo solo limitarci a fare gli ufficiali pagatori, senza ruoli attivi, ne uscirebbe un sistema più debole.
Avrebbe un messaggio personale per il Ministro?
Continuare ad avere fiducia nelle capacità della società civile e nel valore delle autonomie, coltivare la crescita di una sistema di responsabilità diffuse che coinvolga una pluralità di soggetti. Non credo faccia fatica a condividerlo: il ministro Urbani è un politologo di cultura liberale.
IL DOCUMENTO DELLE REGIONI
Il documento, con le proposte concrete per l’allargamento dei soggetti concorrenti, con lo Stato, alla tutela dei beni culturali (è la più vasta visione riformatrice sottesa) e si basa su una convinzione chiaramente espressa: “Stato, Regioni ed Enti locali non possono schierarsi su fronti contrapposti, ma è opportuno che procedano secondo intese e accordi, tali da consentire l’attuazione di quel principio di leale cooperazione più volte affermato dalla Corte Costituzionale (art. 118).
La tutela è stata finora caratterizzata essenzialmente dallo strumento del “vincolo”. Ma, sottolinea il documento, “un vincolo non produce di per sé un maggior godimento pubblico del bene e una più integra sua trasmissione al futuro”, tanto è vero che, di fatto, sia la Soprintendenza sia il possessore hanno la “concreta possibilità di restare inerti o di operare con amplissimo margine di discrezionalità”. Il vincolo, cioè, non promuove di per sé valorizzazione e pubblico godimento. A questo si aggiunte storicamente, in assenza di un regolamento applicativo della legge 1089/39, la mancanza di omogeneità nell’applicare le norme di tutela: con il rischio di un “continuo scivolamento dalla totale discrezionalità verso l’arbitrarietà”.
La svolta rispetto alla prassi attuale sarebbe garantita da un nuovo sistema generale di garanzie legislative mirato alla riduzione della “discrezionalità degli uffici di tutela e nella valorizzazione secondo principi unitari validi in tutto il territorio nazionale” e nella “costituzione di un corpo omogeneo di operatori”, indipendentemente dall’ente di appartenenza. L’obiettivo raggiunto sarebbe così l’articolazione di una nuova mappa delle funzioni amministrative ripartite tra Stato, Regioni ed Enti locali in analogia con quanto già stabilito in ambito museale con la definizione di standard di gestione di musei statali trasferiti alle Regioni o alle autonomie locali. L’esplicitazione, già nel provvedimento vincolistico di possibili usi e modificazioni del bene culturale, consentirebbe , da un lato, l’attribuzione di “poteri autorizzatori non soltanto allo Stato, ma anche alle Regioni e agli Enti locali, allargando i soggetti attivi della tutela”, dall’altro, garantirebbe un collegamento diretto tra i provvedimenti di tutela dei beni (soprattutto architettonici e archeologici) e la pianificazione e gestione del territorio.
Ecco allora la proposta di strumenti di cooperazione nel nuovo quadro costituzionale di competenze tra Stato, Regioni ed Enti locali. Allo Stato è attribuita: l’emanazione di norme di tutela “come alta garanzia”, l’apposizione di vincoli, l’emanazione a livello generale e nazionale di “standard, norme tecniche,m linee guida e relative procedure attuative”, alla cui definizione concorrono le Regioni.Alle Regioni e agli Enti locali spetterebbe invece,: la “valorizzazione e gestione” dei beni; l’adeguamento della normativa urbanistica alla valorizzazione del patrimonio culturale,m proprio al fine di rafforzare ogni garanzia di tutela.
Il “Codice” statale di tutela, protagonista di successivi tentativi di riforma, sarebbe così ridotto da “sommatoria di centinaia di norme” ad “agile strumento di alta garanzia legislativa del diritto-dovere delle comunità locali, territoriali e nazionale a riconoscere, salvaguardare, usare correttamente e tramandare al futuro il proprio patrimonio culturale e ambientale”. Ecco allora che tutela e valorizzazione, anziché contrapporsi, potrebbero finalmente cooperare per raggiungere le finalità “generali” di “salvaguardia e conservazione, conoscenza, godimento e fruizione da parte del pubblico”, con la possibile, attiva partecipazione delle “comunità” dei cittadini.
In conclusione, in considerazione della conflittualità emersa anche in sede di Consiglio di Stato in merito all’interpretazione delle competenze statali e regionali su “tutela” e “valorizzazione”, e grazie a quanto consentito dall’art. 18 del nuovo Titolo V della Costituzione, il documento richiede che il nuovo Codice non sia soltanto legge di principi per quanto attiene la valorizzazione, ma anche in materia di tutela, “delegando alle intese Stato/Regioni la definizione di standard, indirizzi, linee guida e procedure sia in materia di tutela che di valorizzazione”. E ancora, il nuovo Codice “non potrà comportare passi indietro rispetto all’attuale situazione di deleghe, già operanti in materia di beni librari e di paesaggio, che anzi andrà completato ed eventualmente esteso”; vanno confermate alle Regioni sia l’attribuzione dei piani paesaggistici sia la delega di tutte le altre funzioni amministrative.L’obiettivo che le Regioni perseguono, conclude il documento, è il complessivo rafforzamento delle attività di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale: a tal fine, quindi, si propone l’ “accordo tra Stato e Regioni in materia di valorizzazione” e l’ “allargamento, il più possibile, delle finalità di tutela”.
Autore: Redazione
Fonte:Il Giornale dell’Arte