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PERUGIA. Tutto il meglio di Perugino in mostra.

La mostra su Perugino, allestita alla Galleria Nazionale dell’Umbria in occasione dei cinquecento anni dalla morte, offre una ricca panoramica della produzione del maestro tra gli inizi degli Anni Settanta del Quattrocento e i primi anni del secolo successivo, affiancando a opere significative di Pietro Vannucci (Città della Pieve, 1450 circa ‒ Fontignano, 1523) un buon numero di dipinti di artisti coevi.
Il percorso si articola in sette sezioni, in parte a carattere cronologico e in parte tematico: la prima sezione illustra la formazione tra Perugia e Firenze e il confronto con Verrocchio, mentre la seconda racconta il momento di svolta della carriera del pittore, tra la fine degli Anni Settanta e gli inizi degli Anni Ottanta, quando papa Sisto IV lo chiama a lavorare a Roma.

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Si passa quindi a esemplificare la fase in cui lo stile dell’artista giunge a maturazione, all’insegna di una qualità strepitosa e di una “dolcezza ne’ colori unita”, come scrisse Vasari, che incanta lo spettatore. Sono qui riuniti capolavori assoluti, come tre delle otto opere prestate dagli Uffizi (l’Orazione nell’orto, il Compianto e la Madonna con il Bambino tra i santi Giovanni Battista e Sebastiano) e il Trittico della Certosa di Pavia da Londra, qui riunito con il Dio Padre che ancora si trova alla Certosa.
Splendida anche la sezione successiva, dedicata alla ritrattistica: tra gli altri capolavori spicca il dibattuto Ritratto di Perugino degli Uffizi, già assegnato a Lorenzo di Credi o a Raffaello, e presentato in mostra come autoritratto dell’artista. La questione parrebbe definitivamente risolta: solo pochi giorni prima dell’apertura della rassegna si è verificato come le misure del volto degli Uffizi corrispondano al millimetro a quelle dell’autoritratto dipinto da Perugino su una delle pareti del poco distante Collegio del Cambio, a suggerirci che il maestro utilizzò per entrambe le opere lo stesso cartone.
Dopo una sezione dedicata alle Madonne di Perugino e alla loro fortuna, testimoniata da copie e derivazioni, si incontra un approfondimento riservato alla diffusione del linguaggio messo a punto dal maestro umbro: la scelta degli artisti e delle opere presenti è molto azzeccata, includendo personalità di diverse aree della penisola e rielaborazioni originali degli spunti perugineschi (si va dal piemontese Macrino d’Alba al veneto Francesco Verla ai campani Stefano Sparano e Cristoforo Faffeo).

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La mostra si chiude con due dipinti antitetici, uno di soggetto sacro e l’altro profano, uno eseguito a olio su tavola e l’altro a tempera su tela: il celeberrimo Sposalizio della Vergine da Caen, il cui temporaneo ritorno a Perugia a oltre due secoli dalla sottrazione napoleonica costituisce il grande evento intorno al quale è germogliato il progetto espositivo, e la Lotta di Amore e Castità dal Louvre, realizzato per Isabella d’Este, che non fu del tutto convinta (e non senza ragioni) del risultato.
Siamo nel 1504-05, e a questo punto si arresta il racconto: ne resta fuori tutta l’ultima parte della carriera di Perugino, fino alla morte avvenuta nel 1523, gli anni della decadenza, in cui la produzione dell’artista, destinata ormai a centri e committenti minori, si fa sempre più stanca e ripetitiva. La scelta può lasciare interdetti: Perugino affascina non solo perché raggiunse il vertice, ma anche come esempio di artista che non riuscì a rinnovarsi, come “sopravvissuto” di un’epoca ormai superata.
È vero, tuttavia, che gli spazi destinati alla mostra non sono estesissimi, e quindi soffermarsi anche su questa produzione non così strepitosa avrebbe costretto a tagliare opere eccelse degli anni precedenti. Ed è vero che diversi esempi di questa produzione più fiacca del Perugino tardo il visitatore li può trovare in Galleria (da dove infatti non sono stati spostati): questo però non viene detto, quando invece sarebbe bastato un breve accenno per invitare lo spettatore a concludere la visita nelle sale del museo, riflettendo su quanto sono varie le parabole della sorte e dell’ingegno umano.

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Nella conferenza stampa della mattina del 3 marzo, giorno dell’inaugurazione della mostra, si sono succeduti diversi interventi: dopo i saluti del sindaco Andrea Romizi, l’intramontabile Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni peruginesche, non ha esitato a dare al Perugino del testimonial delle bellezze umbre e dell’influencer, mentre la chiusura della conferenza è stata affidata al sottosegretario Vittorio Sgarbi, autore di uno spumeggiante intervento-fiume. In mezzo, i curatori della rassegna Marco Pierini e Veruska Picchiarelli hanno evidenziato le caratteristiche salienti dell’evento, proponendone alcune chiavi di lettura.
Il direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria ha sottolineato come a lungo Perugino sia stato visto soprattutto come un grande allievo (di Verrocchio) e un grande maestro (di Raffaello), quando invece l’artista, nel momento del suo maggiore successo, ovvero nell’ultimo quarto del Quattrocento, ebbe un assoluto primato nell’intera Penisola: tutti volevano averlo al loro servizio o possedere almeno una sua opera, e non sempre ci riuscirono (è il caso di Ludovico il Moro, mentre Isabella d’Este dovette penare sette anni e scrivere cinquanta lettere per avere un suo dipinto). Papa Sisto IV gli affidò prima la decorazione di una cappella in San Pietro, andata perduta al principio del Seicento con la demolizione di quanto restava della basilica costantiniana, e poi lo assoldò per le pitture ad affresco della Cappella Sistina, impresa in cui Perugino ebbe un ruolo di primo piano, coordinando l’intervento di artisti di vaglia, come Botticelli e Pinturicchio. Forte della sua supremazia, il pittore fu il primo artista dopo Giotto, ha puntualizzato Pierini, che creò un linguaggio nazionale, utilizzato dalle Alpi alla Calabria.
Veruska Picchiarelli ha ripercorso l’articolazione dell’itinerario espositivo, sottolineando come la mostra sia il frutto di un lavoro di tre anni e come nel titolo della rassegna si vogliano evidenziare i due principali livelli di lettura del progetto: si illustrano gli anni in cui Perugino fu “il meglio maestro d’Italia” (come ebbe a definirlo Agostino Chigi nel 1500) e nel contempo si mostra l’artista “nel suo tempo”, collegandolo alle figure con cui si è formato, a quelle con cui ha collaborato e infine ai grandi pittori che su tutto il territorio della Penisola lo hanno preso come punto di riferimento, rielaborando gli spunti offerti dall’arte peruginesca in maniera originale.
Dopo la chiusura di un anno per i lavori di ristrutturazione, la Galleria Nazionale dell’Umbria ha riaperto i battenti nell’estate del 2022 in una veste completamente rinnovata. Dal Maestro di San Francesco a Pierre Subleyras (ma non manca una piccola appendice novecentesca), il visitatore ha l’opportunità di ripercorrere quasi mille anni di arte prodotta in o per l’Umbria, in sale ampie ‒ come la prima, di grande effetto, dedicata ai primitivi ‒ o più raccolte, con i pezzi esposti alla luce naturale o sapientemente rischiarati dai faretti, con un apparato di pannelli e didascalie vario ed efficace, che comprende schermi su cui scorrono brevi video di spiegazione delle opere. La pittura fa la parte del leone, con celebri capolavori di Beato Angelico, Piero della Francesca, Perugino, Pinturicchio, e con gemme meno note che illustrano l’evoluzione dell’ars pingendi a Perugia e nell’Italia centrale; ma tra i pezzi esposti si annoverano anche vertici della storia della scultura, come le parti superstiti della Fontana degli Assetati di Arnolfo di Cambio. Un percorso ragionato, affascinante e, cosa non meno importante, godibilissimo: numerosi sono i punti in cui si può sostare, comodamente seduti, per ammirare meglio certi pezzi o gli ambienti stessi, che non di rado sono di notevole interesse (siamo all’interno del principale edificio pubblico di Perugia, il Palazzo dei Priori).
In questo senso, meritano di essere ricordate almeno la cappella, affrescata da Benedetto Bonfigli nella seconda metà del Quattrocento, e la Sala Farnesiana, con il suo fregio realizzato tra il 1546 e il 1548 su commissione di papa Paolo III.

Autore: Fabrizio Federici

Info:
Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo, dal 03/03/2023 al 11/06/2023
GNU – GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA
Corso Pietro Vannucci 19 – Perugia – Umbria

Fonte: www.artribune.com, 3 apr 2023

VENEZIA ospita una grande mostra su Carpaccio.

Dopo 60 anni esatti dalla storica mostra a Palazzo Ducale, Venezia torna a celebrare uno dei suoi artisti rinascimentali più famosi: Vittore Carpaccio (Venezia, 1460/66 ca – Capodistria 1525/26 ca).
La grande retrospettiva – in programma presso l’Appartamento del Doge dal 18 marzo al 18 giugno – nasce da una collaborazione tra i Musei Civici Veneziani e la National Gallery di Washington che ha recentemente ospitato le sue opere, prestate da importanti collezioni museali e private d’Europa e degli Stati Uniti, nonché da chiese veneziane e degli antichi territori della Serenissima, dalla Lombardia all’Istria e alla Dalmazia.

Vittore Carpaccio, Caccia in valle

Diversamente dall’esposizione a Washington – la prima dedicata all’artista veneziano in America – questa di Venezia, dal titolo Vittore Carpaccio. Dipinti e disegni, rimanda agli itinerari cittadini ricchi di capolavori legati ai suoi famosi cicli, serie coordinate di tele (teleri) che raccontano storie sacre, create per le sale di riunione di confraternite religiose e laiche, a Venezia dette scuole. Come quello dell’unico ciclo rimasto nella sede originaria, nella Scuola di Giorgio degli Schiavoni: San Giorgio e il Drago (da segnalare una sua versione in chiave contemporanea, realizzata da Ai Weiwei, ora visibile presso l’Abbazia di San Giorgio Maggiore). Una scelta curatoriale, questa, dettata soprattutto dalla necessità: “tali opere basilari di Carpaccio, alcune rimaste a Venezia, ma altre esulate all’inizio nel secolo XIX in musei italiani e internazionali”, spiega Mariacristina Gribaudi, Presidente di Fondazione MuVe, “sono troppo grandi e fragili per essere condotte in mostra (solo si è potuto riunire integralmente il ciclo smembrato della Scuola degli Albanesi)”.

Vittore Carpaccio, La fuga in Egitto

Carpaccio era anche un ottimo disegnatore: del notevole corpus dei suoi disegni – il più grande di un pittore veneziano del suo tempo – sono esposti numerosi studi su carta, che spaziano da rapidi schizzi compositivi d’insieme ad accurati studi preparatori di teste e pose. Così, la retrospettiva a Palazzo Ducale proponendo ben 70 opere dell’artista, di cui 42 dipinti e 28 disegni, 6 dei quali sono recto/verso, per un totale di 76 lavori – molti dei quali pervenuti grazie a recenti scoperte e nuove attribuzioni – ha il pregio di aggiornare la lettura storico-critica del pittore e la sua evoluzione.
“Questa mostra”, conclude Andrea Bellieni, co-curatore dell’esposizione insieme a Peter Humfrey e a Gretchen Hirschauer – “nasce dall’esigenza di guardare con occhi nuovi a questo grande pittore, soprattutto alla luce di recenti restauri rivelatori e della scoperta di significativi inediti: una preziosa opportunità per la storia dell’arte, ma anche per il pubblico, di fronte alla pittura di irresistibile fascino di un tale ‘antico maestro’”.

Autore: Claudia Giraud

Fonte: www.artribune.com, 4 mar 2023

ROVIGO. Renoir, il classicismo e l’Italia.

Fra i massimi esponenti dell’Impressionismo, movimento che rinnovò radicalmente l’arte del secondo Ottocento, Pierre-Auguste Renoir (Limoges, 1841 ‒ Cagnes-sur-Mer, 1919) fu però un artista che ebbe comprensione e rispetto per l’arte del passato, alla quale volle guardare quando, giunto nella fase matura della sua carriera, sentì la necessità di un ulteriore passo avanti. E lo compì guardandosi indietro, in particolare all’Italia del Cinquecento, dei vari Carpaccio, Raffaello, Tiziano, Rubens, Tiepolo, che studiò attentamente nel corso di un suo soggiorno fra il 1881 e il 1882.
A Rovigo si può visitare un’interessante mostra di studio che contestualizza il maestro impressionista sia nell’accostamento con quei pittori del passato che lo ispirarono nel corso della carriera, sia nel confronto con i contemporanei, in particolare il gruppo degli “Italiens de Paris” e con gli artisti che lo hanno seguito e che a lui si sono in parte ispirati. Una mostra “su” Renoir e “con” Renoir, per scoprirne i lati di “classicista moderno” e capire l’influenza che anche questa fase matura della sua carriera ha esercitato sull’arte europea, in un momento in cui l’ebbrezza della Belle Époque faceva pensare a un radioso avvenire nel nome della modernità e del progresso. Amare delusioni sarebbero invece seguite.
Da Venezia a Firenze e Palermo, passando per Roma e Napoli, Renoir trascorse quattro mesi studiando quel Rinascimento che gli era meno noto, a partire da Tiepolo e Carpaccio scoperti a Venezia, mentre Roma lo folgorò con i grandiosi affreschi di Raffaello e in Campania ammirò le pitture murali di Pompei; da questi stimoli apprese una nuova idea di sensualità, ben più carnale e insieme spirituale di quella da lui raggiunta immortalando le donne francesi. Ma della Penisola a Renoir piacque anche la luce, così mediterranea, che a suo dire vitalizzava le opere d’arte, donando loro un calore particolare. Il soggiorno in Italia lo convinse quindi a proseguire su quella strada di “riavvicinamento” all’Antico sulla quale aveva mosso i primi passi nel 1876, con Aprés le bain, dove si ritrovano richiami al plasticismo corporeo di Tiziano, ma anche del connazionale Ingres. Percorso che prosegue con La Baigneuse blonde (1882), dove alla morbidezza della forma si aggiunge una chiara e calda luce meridionale, mentre la linea è più netta e la figura ben definita. Renoir si allontanò dall’Impressionismo alla ricerca di una modernità che si ispirasse al passato, e anche Rubens (che a sua volta studiò attentamente il Rinascimento) si prestò a fare da modello, come la mostra documenta accostando la Femme s’essuyant (1912-14) e le Ninfe che incoronano la dea dell’Abbondanza (1622). Nell’accostamento ai maestri del passato e attraverso il nutrito corpus di dipinti e disegni, si può ricostruire il percorso maturo di un artista che, forse già stanco della vivacità della Belle Époque e presentendone in cuor suo la fatuità, cercò nuove motivazioni nella rassicurante (mai soverchiante) grandezza tardo-rinascimentale, che, pur in mezzo allo splendore, cominciava a comunicare un certo crepuscolarismo, a porsi domande e ad avanzare alcuni dubbi. E, forse, anche Renoir volle inconsciamente esprimere i suoi dubbi verso il positivismo imperante.
Quel suo rivalutare la lezione dei maestri rinascimentali fu una prima avvisaglia, in un certo senso, di quel “ritorno all’ordine” che caratterizzò il lavoro di molti artisti italiani del primo Novecento e del primo dopoguerra. Le atmosfere dei suoi paesaggi ritornano infatti nell’opera di Arturo Tosi, Enrico Paulucci e Carlo Carrà, dove alla sintesi della forma si affianca una vibrante pennellata che infonde luminosità alle scene.
Se Renoir preferì lasciare Parigi per la tranquillità della Provenza, per la maggior parte dei suoi colleghi la Ville Lumière era il centro del mondo, meta irrinunciabile per esperienze di vita (artistica ma non solo) e luogo dove indirizzare la propria carriera. Un fascino che subirono anche molti pittori italiani, Boldini, Zandomeneghi e De Nittis su tutti; questi guardarono, in particolare, alla prima fase della carriera di Renoir, quell’Impressionismo spumeggiante che sprizzava vitalità a profusione, quello, ad esempio, del Moulin de la Galette, popolarissimo ritrovo mondano per le classi meno abbienti, ma amatissimo dagli artisti. Una mondanità che si ritrova, ad esempio, in Carrozza a Versailles (1873) di Boldini; e poiché l’Impressionismo aveva nella figura femminile uno dei suoi soggetti preferiti, la mostra permette di apprezzare come la lezione francese sia stata recepita anche dagli italiani; particolarmente vibrante la Donna dalle spalle nude (1895) di Zandomeneghi, caratterizzata da caldi effetti luministici.
La mostra rodigina offre però anche un diverso livello di lettura; oltre a documentare la fase matura di Renoir con i confronti critici proposti, racconta anche l’uomo, attraverso il mondo dei suoi affetti. Particolare tenerezza suscitano infatti i ritratti (su tela e su carta) della moglie e dei figli, che fra l’altro molto ispirarono Armando Spadini. Particolarmente intensa la sanguigna su carta Jean Renoir dans les bras de Gabrielle (1895), con la moglie che tiene in braccio colui che diventerà un apprezzato regista. Il lavoro del padre non gli fu estraneo, in particolare in Una gita in campagna (1936), del quale la mostra propone alcuni spezzoni in versione restaurata: in tali scene si può apprezzare come il figlio abbia ricreate le prospettive e le atmosfere di molti dei dipinti del genitore; una sorta di ideale “passaggio di consegne” sulla strada dell’arte in senso lato, ma anche un modo di continuare a guardare avanti senza dimenticare il passato: un passato che per Jean Renoir proveniva direttamente dal padre.

Autore: Niccolò Lucarelli

Info:
Pierre-Auguste Renoir – L’alba di un nuovo classicismo, fino al 25/06/2023
PINACOTECA DELL’ACCADEMIA DEI CONCORDI – PALAZZO ROVERELLA
Via Giuseppe Laurenti 8/10 – Rovigo

Fonte: www.artribune.com, 3 mar 2023

UDINE. Quasi 60 opere e dieci aree espositive: inaugurata “Insieme”, la mostra a Casa Cavazzini.

Il cuore della città si apre per ospitare in uno dei luoghi più belli di Udine, Casa Cavazzini, la mostra curata da don Alessio Geretti, dal titolo “Insieme”. Ieri l’inaugurazione e il taglio del nastro alla presenza del Ministro per i rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, del presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia Piero Mauro Zanin, dell’assessore alle Attività produttive e Turismo della Regione Fvg, Sergio Emidio Bini, del dirigente del servizio Cultura e Istruzione del comune di Udine Antonio Impagnatiello, del prefetto di Udine Massimo Marchesiello, del sindaco di Udine Pietro Fontanini, dell’assessore alla Cultura del Comune di Udine, Fabrizio Cigolot, dell’assessore alle Attività produttive Turismo e Grandi eventi, Maurizio Franz e di Vania Gransinigh, conservatrice responsabile di Casa Cavazzini.
Sono 56 i capolavori in mostra, tra cui opere di de Chirico e Guttuso, visitabili fino al 16 luglio.
«Spetta a me gettare un po’ di scompiglio – ha annunciato don Geretti prima del taglio del nastro – e aprire la campagna elettorale a favore della parola “eleggere”, dal latino “eligo”, che ha a che fare con l’innamorarsi di qualcosa che si è scelto. E allora scegliamo la bellezza e il pensiero che ci confortano. La mostra ha come tema i legami che fanno vivere, la passione con cui superiamo solitudini e distanze. Una meditazione d’arte per passare da un uomo smarrito nell’incomunicabilità a un uomo ritrovato nell’intersoggettività».
«Sono molto felice di essere qui come rappresentante del Governo – ha commentato Luca Ciriani – ma anche come appassionato d’arte e amico di don Alessio. Merito suo se così tante opere sono arrivate qui. Udine si pone al centro dell’Europa grazie a questa mostra che sarà motivo per i visitatori di avvicinarsi anche alle altre bellezze artistiche e architettoniche della città. Con questa esposizione la città del Tiepolo dà la mano ai pittori contemporanei».
«Dopo gli oltre 50 mila visitatori dell’esposizione “La forma dell’infinito” – ha segnalato il primo cittadino di Udine Pietro Fontanini – una nuova mostra nel nostro museo d’Arte moderna e contemporanea, Casa Cavazzini. Ringrazio gli amici di Illegio, il gruppo di San Floriano e il curatore don Alessio grazie ai quali questa grande mostra è possibile».
Dieci le sale espositive allestite al secondo piano di Casa Cavazzini, per far scoprire al visitatore le esperienze fondamentali di contatto con sé stessi con l’altro. La meditazione su distanze, solitudini, misteri, prende le mosse dal genio di Salvador Dalì, con un quadro che, svela lo stesso don Geretti, «non esce mai dal museo teatro, la Fundacio Gala-Salvador Dalì». Il pittore si ritrae di spalle mentre dipinge la moglie Gala vista di spalle ed eternizzata da sei cornee virtuali provvisoriamente riflessa da sei veri specchi. Un olio su tela del 1972-73 «in cui il pittore sembra dire: dopo una vita intera di intese e alchimie condivise, di te non conosco ancora tutto», ha approfondito don Geretti.
Ma la mostra che vede coinvolti musei e collezionisti di otto paesi d’Europa quali Austria, Croazia, Francia, Italia, Polonia, Spagna, Inghilterra e Ungheria è anche un viaggio dentro sè stessi, un’occasione per rivedere la propria vita, i momenti, le figure, gli abbracci, i dolori più importanti. Basta considerare i passi, le sezioni che identificano ciascuna sala: solitudini, amore, sangue, prossimità, conflitti, il cielo, smarrirsi, ritrovarsi.
L’opera più distante nel tempo è del 1851, la più vicina del 1992. Particolarmente significative le opere che richiamano al luogo eletto per la nascita delle relazioni: ovvero il mondo dell’infanzia, degli amici del cuore, della scuola. Potentissimo, sembra di sentirle le urla di protesta de “Le donne degli zolfatari di Lercara durante uno sciopero”, quadro di Renato Guttuso del 1953.
Una sorpresa “Formazione rocciosa. Monte di Sodoma” di Mirko Basaldella proveniente dalla casa di Beverly Hills di Dino De Laurentiis, opera mai vista appena ricondotta in Italia, posta solo qualche tela prima del russo Kandinskij e del suo “Rosso in forma appuntita”.

Autore: Fabiana Dallavalle

Fonte: www.messaggeroveneto.gelocal.it, 19 feb 2023

ROVIGO. RENOIR. L’alba di un nuovo classicismo.

È una mostra davvero originale quella dedicata a “Pierre-Auguste Renoir: l’alba di un nuovo classicismo”, curata da Paolo Bolpagni, che la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo annuncia in Palazzo Roverella dal 25 febbraio al 25 giugno del ’23. Di Renoir, uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo, è messo a fuoco il momento successivo alla breve esperienza impressionista, quando l’artista, spinto da una profonda inquietudine creativa, decide di intraprendere, nel 1881, un viaggio in Italia. Un tour che ebbe inizio a Venezia, dove a colpirlo furono soprattutto Carpaccio e Tiepolo (mentre già conosceva bene Tiziano e Veronese, ammirati e studiati al Louvre); che proseguì per brevi tappe a Padova e a Firenze; e che trovò una meta fondamentale a Roma. Qui Renoir fu travolto dalla forza della luce mediterranea e sviluppò un’ammirazione per i maestri rinascimentali. Un’ulteriore tappa del viaggio fu il golfo di Napoli: Renoir scoprì le pitture pompeiane, fu rapito dalla bellezza dell’isola di Capri e quasi soggiogato dai capolavori antichi esposti nel museo archeologico. Infine andò a Palermo, dove incontrò Richard Wagner e lo ritrasse in un’opera divenuta famosa (ma non si può dire che fra i due scoccò la scintilla: anzi, il compositore gli concedette soltanto quarantacinque minuti di posa).
Il viaggio in Italia, più che suscitare opere di particolare rilievo, fu foriero di una sorta di rivoluzione creativa per l’artista, riverberandosi sul prosieguo della sua produzione, che culminerà, di fatto, nell’abbandono della tecnica e della poetica impressioniste, che avvenne prima dell’ufficiale scioglimento del sodalizio nel 1886.
Dalla joie de vivre delle scene di divertimento della borghesia parigina degli anni Settanta, Renoir passò quindi a uno stile aigre, aspro. Riprendendo anche la lezione di Jean-Auguste-Dominique Ingres, il pittore, allora poco più che quarantenne, recuperò un tratto nitido e un’attenzione alle volumetrie e alla monumentalità delle figure, nel segno di una sintesi che enucleò una personale forma di classicismo, mentre le tendenze dominanti viravano verso il Postimpressionismo da una parte e il Simbolismo dall’altra. Nei primi due decenni del Novecento Renoir passò poi a dar vita a un’arte che costituì, mentre si scatenavano le avanguardie, una precoce avvisaglia della nuova sensibilità che sarebbe divenuta dominante dopo il conflitto mondiale, dipingendo in un possente stile neo-rinascimentale, dove i toni caldi e scintillanti mutuati da Tiziano e da Rubens si coniugavano con i riferimenti a un’iconografia mitica e classicheggiante e con un’esaltazione della poetica degli affetti familiari. Renoir anticipava in tal modo vari aspetti del rappel à l’ordre: un lato meritevole di messa a fuoco, giacché quella che superficialmente è apparsa a non pochi come un’involuzione era, in realtà, una premonizione di molta della pittura e della scultura che si sarebbero sviluppate tra le due guerre.
La mostra si concentrerà soprattutto su questa seconda fase della carriera di Renoir, a partire dal ritorno dal viaggio in Italia sino alle opere della vecchiaia, dapprima evidenziando vicinanze e tangenze con Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi, Giovanni Boldini e Medardo Rosso, italiani attivi a Parigi, e poi ponendo in risalto l’originalità di una produzione che non fu affatto attardata, ma che costituì uno dei primi casi quella “moderna classicità” che sarebbe stata perseguita da numerosi artisti degli anni Venti e Trenta, in maniera speciale in Italia, come sarà evidenziato dai confronti che saranno istituiti nelle sale di Palazzo Roverella. Per esempio con le sculture di Marino Marini e Antonietta Raphaël (affiancate alla Venus Victrix di Renoir del 1916), e con i dipinti di Armando Spadini, Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, Arturo Tosi, Filippo de Pisis, Luigi Bartolini, Enrico Paulucci.
Sarà dunque posta al centro dell’indagine la produzione di Pierre-Auguste Renoir a partire dagli anni Ottanta del XIX secolo, che segnò l’inizio di un progressivo allontanamento dall’esperienza impressionista. La mostra seguirà poi l’evoluzione della sua pittura nei successivi sviluppi, dalla monumentalità classicheggiante e “neorinascimentale” delle figure ai paesaggi della Provenza e della Costa Azzurra, indagando sia i rapporti con altri artisti, sia le “assonanze” con chi, nel periodo del “ritorno all’ordine”, ne mediterà e assimilerà la lezione. In mostra il percorso prenderà avvio da un capolavoro della stagione impressionista di Renoir, il grande studio preparatorio a olio su tela del celeberrimo Moulin de la Galette, per misurarne poi la deviazione via via sempre più netta da quel linguaggio. Non mancherà il fil rouge del racconto biografico delle vicende personali dell’artista, anche sulla falsariga della biografia che il figlio Jean, celebre regista, dedicò al padre all’inizio degli anni Sessanta del Novecento (Pierre-Auguste Renoir, mon père).

Info:
www.palazzoroverella.com tel 0425460093.
Fondazione Cariparo
Ufficio Comunicazione: dott. Roberto Fioretto – comunicazione@fondazionecariparo.it