Nella primavera del 1610 Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio, dipingeva il “Martirio di Sant’Orsola”. L’opera si può con ogni probabilità considerare l’estrema testimonianza pittorica di una carriera costellata di successi e violente critiche.
La tela, commissionata da Marcantonio Doria durante l’ultimo soggiorno napoletano dell’artista presso la residenza della marchesa di Caravaggio, Costanza Colonna Sforza, dopo essere tornata nel 1823 a Napoli tramite l’acquisizione, per via ereditaria, nella collezione Doria d’Angri, ed essere poi passata nel 1973 alla Banca Commerciale Italiana, appartiene oggi alle raccolte d’arte Banca Intesa che ne ha promosso il restauro.
L’esposizione del dipinto, restaurato e ricondotto alla sua vera natura, si svolgerà in tre città per poi concludersi in terra napoletana. L’evento sarà ospitato a Roma dalla Galleria Borghese dal 21 maggio al 20 giugno; a Milano l’esposizione avrà luogo nella Pinacoteca Ambrosiana dal 2 luglio al 29 agosto; infine il viaggio della tela conoscerà una nuova tappa a Vicenza nelle Gallerie di Palazzo Leoni Montanari dove rimarrà dal 3 settembre al 10 ottobre di quest’anno. Tornato in area campana il dipinto diverrà il perno della grande mostra, “Caravaggio: l’ultimo tempo” che si terrà al Museo Capodimonte di Napoli dal mese di ottobre di quest’anno al gennaio 2005: un’opportunità imperdibile per ascoltare gli ultimi sussurri di vita di uno dei pittori più grandi della nostra storia, un’opportunità per raccogliere il suo testamento spirituale.
L’intervento conservativo sul “Martirio” caravaggesco, compiuto tra il 2003 e il 2004 e da poco ultimato, è stato affidato all’Istituto Centrale per il Restauro di Roma ed è stato curato da Carlo Giantomassi e Donatella Zari che, sotto la direzione scientifica di Denise Pagano, fedeli alle teorizzazioni del Brandi, ci hanno restituito un’opera “nuova” e per certi versi inedita.
Pur conservando le aggiunte settecentesche, tra cui i 13 cm d’incremento in altezza, quale segno delle vicende storiche in cui l’opera è incorsa, le hanno rese meno visibili, lasciando emergere la volontà originaria dell’artista.
La dozzina di centimetri aggiuntivi è stata relegata sotto la cornice restituendo illusionisticamente all’opera le dimensioni originarie; la mano del “protettore” della santa, forse dello stesso Marcantonio, al medesimo tempo tentativo di fermare un destino che trascende la volontà umana e mezzo per bucare lo spazio ed afferrare lo spettatore trascinandolo nel vivo della scena, è stata fatta affiorare dal panneggio della martire appena è stato accertato che la sua scomparsa non era dovuta ad un pentimento del Merisi. Anche le cromie, attutite con velature brunastre alla ricerca di un’irraggiungibile omologazione della superficie pittorica, sono tornate al loro antico splendore.
Le indagini diagnostiche preliminari all’intervento, stabilendo che l’impasto preparatorio coincide con quello del coevo San Giovanni Battista della Galleria Borghese e mediante il rinvenimento di tracce certe dello stile tardo dell’artista, hanno permesso inoltre di accertare la validità dell’attribuzione rimasta a lungo controversa.
La “Sant’Orsola” attribuita prima a Bartolomeo Manfredi da Roberto Longhi, ascritta in seguito a Mattia Preti, è stata aggiunta al novero delle opere del Caravaggio da Mina Gregori (1974) e da Ferdinando Bologna. Per ultimo era stato il Pacelli (1980) a suffragare l’attribuzione, resa ormai indubitabile dai rilievi dell’ICR, con degli inoppugnabili riscontri archivistici quali tra gli altri la lettera dell’11 maggio 1610 inviata da Lanfranco Massa, procuratore napoletano del Doria, allo stesso Marcantonio. La lettera è fondamentale per l’individuazione del quadro, per le informazioni sulla tecnica impiegata e sulla vernice adoperata che scopriamo essere molto grossa e difficile da asciugare, nonché per la comprensione dell’iconografia che si lega intimamente alle vicende familiari del committente.
Marcantonio Doria aveva sposato Isabella della Tolfa, vedova del principe di Salerno, Agostino Grimaldi. La figlia di Isabella ed Agostino, Livia, prendendo i voti aveva assunto proprio il nome religioso di Suor Orsola. Da ciò probabilmente trae origine la devozione verso la santa nutrita da Marcantonio ed il motivo della sua committenza. Questo può spiegare anche perché l’artista accingendosi all’opera riduca i personaggi al numero di cinque portando sulla scena, quali protagonisti privilegiati dello spazio, il re Unno che scaglia la freccia che trafigge il petto della fanciulla e questa stessa nel momento della morte, mentre invece la leggenda fa riferimento ad altre 11.000 compagne di martirio.
La santa ed il suo carnefice, quasi a sottolinearne il ruolo di protagonisti indiscussi della tela, sono le uniche due figure rilevate in rosso, lei pervasa di luce nelle carni bianchissime, lui col volto in ombra, reo del suo delitto. L’assassino è avvicinato alla santa a tal punto da far venire meno lo spazio realisticamente necessario per vibrare il colpo.
Caravaggio coglie la conseguenza del compimento del gesto omicida, non si sofferma come gli è proprio, sull’attimo della sua attuazione: il dramma su cui indugia l’occhio del Merisi è già stato consumato ed Orsola, esangue e morente, si porta le mani al petto quasi a toccare la veridicità della sua morte. Il volto levigato ed assorto della giovane martire è contrapposto a quello del suo assassino, realisticamente rugoso e contratto. Il male è qui metaforicamente contrapposto al bene: lo scintillio dell’armatura, metonimia della forza bruta e della morte, è simbolicamente avvicinato, in un contrasto che ha del parossistico, alle curve sinuose della donna, al seno che alimenta la vita.
Caravaggio, così come del “Davide con la testa di Golia”, muore nel quadro con Orsola, prestando il suo volto ad innestarsi sul collo chino della santa con la bocca spalancata a gridare il dolore che la fanciulla sembra quasi non sentire. L’artista, che di lì a poco resterà vittima di un agguato a Port’Ercole, sta già vaticinando la sua morte.
Autore: Barbara Carmignola