Nel volume di Brambilla-Marani le caratteristiche storiche e tecniche dell’intervento, uno dei migliori del nostro secolo: peccato che l’assetto generale del contesto non consenta la migliore delle visioniE’ innegabile che lavorare ad un manufatto particolarmente conosciuto ed amato, sotto un’attenzione pubblica vigile e costante, possa aggiungere uno stress particolare alle difficoltà già esistenti. Oggi che il Cenacolo leonardiano è tornato a proporsi integralmente all’ammirazione di tutti, e che uno splendido volume, dovuto all’ultimo direttore dei lavori e al restauratore, giunge a raccontarci le caratteristiche dell’impresa (Pinin – Brambilla – Barcilon – Pietro C. Marani, Leonardo. L’Ultima Cena, Electa, Milano, 1999) dal punto di vista storico e tecnico, penso che la signora Brambilla abbia dovuto certamente lavorare sotto una pressione straordinaria: come si suol dire, col fucile puntato. Spero l’abbiano confortata nei venti lunghi anni che ha dedicato a questo lavoro, i segni di apprezzamento giunti numerosi da parte di coloro che si rendevano conto almeno in parte di quanto arduo e complesso fosse il suo compito; mi auguro abbia provato il sentimento di non esser sola davanti alla parete di fondo del Refettorio di Santa Maria delle Grazie, in presenza unicamente delle sue aiutanti (Licinia Antonielli, Laura Betlani, Pierangela Fonnaggini). Intendo dire che le difficoltà poste dal restauro del Cenacolo non erano soltanto tecniche, anche se sarebbe bastato; ma psicologiche.Una diagnosi assai complessaL’enorme pressione dell’attenzione pubblica si esercitava difatti in un caso nel quale era particolarmente difficile, al momento della diagnosi, rendersi conto con esattezza del risultato ottenibile. Le stratificazioni delle ridipinture applicate in maniera non uniforme ad una superficie bistrattata dalle puliture e, come abbondantemente noto, ad un testo estremamente sofferto nella materiale conservazione fin dalle origini, facevano sì che si rendesse in qualche modo inevitabile navigare a vista. Questo non significa, si badi bene, che l’operazione fosse contrassegnata dall’improvvisazione; ma che era necessario uno sforzo particolare per lavorare di centimetro quadrato in centimetro quadrato, avendo sempre in mente, come termine di riferimento, la superficie intera. In nessun altro caso come in questo il risultato finale è determinato dalla somma di innumerevoli minuscole componenti. In qual misura esse sarebbero approdate a ricomporsi nell’unità visiva dell’insieme era materia di mera ipotesi, o potremmo dire fiducia; credo che anche la signora Brambilla abbia atteso, diciamo con curiosità se vogliamo applicare l’understatement, che, tolti i ponteggi dopo due decenni, il grande dipinto murale tornasse visibile nella sua interezza. E’ stata una grande operazione, supportata dalla Olivelli che, secondo quanto scrive nell’introduzione Renzo Zorzi, si sarebbe trovata addirittura in qualche momento a surrogare le istituzioni: che ha visto succedersi soprintendenti e direttori dei lavori; ma che ha ricevuto garanzia di continuità dalla presenza attiva di Pinin Brambilla.La lettura dello storico dell’arteNel volume, Pietro Marani presenta il Cenacolo dal suo punto di vista di storico dell’arte; e qui ricordiamo soltanto il terzo capitolo del suo ampio saggio, quello che ripercorre le testimonianze antiche e moderne relative al degrado della pittura, giungendo fino al restauro della fine anni Quaranta operato da Mauro Pellicioli. Ecco dunque le prime testimonianze del degrado, con la famosa descrizione vasariana del 1566, secondo cui il pittore e critico aretino vedeva ormai non più di “una macchia abbagliata”. Ed ecco i restauri del Belletti nel 1726, del Mazza nel 1770, del Barezzi nel 1821, di Luigi Cavenaghi fra il 1903 e il 1908, del Pellicioli infine nel 1947-49. Ma si leggerà come già nel Seicento dovessero esservi stati interventi non documentati apertamente, e desumibili soltanto da considerazioni indiziarie. Quel che conta è che tutto ciò (senza voler naturalmente gettar la croce addosso agli ultimi interventi. in particolare quello del Pellicioli), unito con il degrado in corso fin dall’origine, aveva condotto ad una situazione in cui nessuno sapeva più quanto e che cosa del dipinto leonardiano fosse ancora in esistenza. In nessuna parte vi era la possibilità di un accesso diretto alla superficie; la visione era sempre mediata dalle ridipinture, dalle ripuliture spietate, dai film di sostanze organiche applicati l’uno sopra l’altro tanto da costituire una superficie vischiosa e opaca. Si poteva unicamente sperare che la composizione, nel suo complesso, restituisse almeno un’idea del progetto originale dell’artista, ma anche questo era poco più che un atto di fede, un testo lacero e diminuito all’estremo, ma leggibile.E’ dunque chiaro che condivido appieno le motivazioni che indussero Carlo Bertelli, proseguendo con convinzione dopo l’inizio dato da Stella Matalon, ad impostare l’operazione straordinaria per difficoltà che si è conclusa in quest’anno. Il testo che ci sta oggi davanti è lacero e diminuito all’estremo, ma è leggibile nella sua autenticità, ed è ciò che conta. Quand’anche i risultati non fossero stati appaganti quali li giudico, tenendo conto dello stato di partenza, avremmo sempre e comunque ottenuto una situazione incomparabilmente preferibile al santino ingrandito di cui disponevamo in precedenza. Pinin Brambilla ha pulito ogni particella di colore con ripetute applicazioni di solventi, differenziati secondo esperienza: alcol metilico e dicloroetano in parti uguali, diclorometano e formiate di metile ugualmente in parti uguali (con modestissima aggiunta di acido formico), e metiletilchetone con acqua rispettivamente per uno e tre quarti. Le applicazioni dovevano esser ripetute fino a quattro volte; e immagino sia stato ampiamente necessario anche intervenire con una pulitura a secco. Le fissature sono state eseguite con gommalacca decerata diluita in alcol etilico, seguendo il metodo applicato da Pellicioli; credo che la scelta, se si decontestualizza non entusiasmante per le ben note controindicazioni della gommalacca, sia stata condizionata e resa inevitabile appunto dall’intervento precedente. Nelle lunette, in cui la situazione era tecnicamente diversa, si è fatto uso più normalmente di Primal al 5%. I difetti di adesione fra l’intonaco e la parete sono stati risarciti con resine viniliche e cascinaio di calcio, in aggiunta o in alternativa.Un difficilissimo restauro pittoricoMa un compito di difficoltà pari a quello della pulitura era costituito dal restauro pittorico. Aver saputo riconnettere con l’acquerello le isolette di colore, spesso lontane l’una dall’altra, trovando i toni e i sottotoni giusti, alternando sfumature fredde con altre più accostanti, tanto che quanto rimane di originale emerge a proporsi con tutta la forza del pensiero e del pennello di Leonardo, lo ritengo davvero uno dei migliori risultati che il restauro possa annoverare nel nostro secolo. Non ripropongo qui la quantificazione in percentuale del testo originale sopravvissuto, che in maniera del tutto esemplificativa e simbolica ho avanzato, io come altri, in altra occasione: c’è sempre qualcuno che li prende letteralmente, o perché non capisce davvero, o perché è in mala fede; e che si mette a paragonare le percentuali espresse dai vari studiosi, per affermare trionfalmente che non c’è consenso. Basti dire che del Cenacolo originale rimane poco, in alcuni casi drammaticamente poco, ma che il restauro ci ha riscoperto in continuazione valori espressivi e formali spesso inaspettati, che procurano commozione sincera in chi sia ancora capace di emozionarsi ed entusiasmarsi. E le illustrazioni del volume, di qualità spesso straordinaria, rendono giustizia alla difficoltà del lavoro svolto e alla bontà dei risultati conseguiti, consentendo di leggere nella loro minima tridimensionalità le zone di colore superstiti, di valutare la brutalità delle ridipinture. Uno dei motivi di ammirazione, e non il minore, che si conserva per il lavoro della restauratrice, è la sicurezza motivata con cui è progressivamente giunta a riconoscere autori ed epoche delle ridipinture in ogni minima zona che il microscopio le andasse rivelando.Un dipinto che galleggia nel vuotoAl Cenacolo si accede oggi per prenotazione e, seguendo le indicazioni dell’Istituto Centrale del Restauro, attraverso un percorso che depura della polvere. Giunti nel refettorio, però, la valutazione del dipinto viene rallentata e complicata da una somma di elementi che non appaiono collaborare alle migliori condizioni che si vorrebbero. Intendo dire che l’assetto generale del contesto non risulta risolto con lo stesso grado di approfondimento del restauro del dipinto. Già in altre occasioni mi sono espresso in proposito, ma ritengo di farlo un’ultima volta in maniera assai esplicita, oggi che il restauro è finito e il Cenacolo aperto al pubblico. Un disturbo alla visione è dato dall’assoluta, completa assenza di qualsiasi tentativo di contestualizzazione. Intendo dire che oggi il dipinto galleggia del tutto incongruamente nel vuoto, a notevole distanza dal suolo, avendo perduto qualsiasi riferimento spaziale che consenta di comprenderne i parametri prospettici. Prima del 1943, come testimonia anche la foto a p. 16, sotto il dipinto stava un lambì in legno, che funzionava da piedistallo ed appoggio per la superficie dipinta; e tutto funzionava infinitamente meglio. Oggi il Cenacolo corre già abbondantemente il rischio di risultare mero oggetto di culto popolare, promosso a feticcio; in questa situazione, ogni soluzione che ne aiuti un minimo di contestualizzazione o ne suggerisca un’ambientazione non può che essere benvenuta. E’ indispensabile riproporre il fatto che ci troviamo, nonostante tutto, in un refettorio, dove i frati sedevano su lunghe panche per mangiare su lunghe tavole, appoggiandosi a lunghi schienali. Non dico di riproporre tavoli e panche, ma almeno gli schienali sì; essi verrebbero ad assumere la funzione di una cornice per un quadro (ci si rilegga il Brandi, “Togliere o conservare le cornici come problema di restauro”, ora in Teoria del Restauro), che ha valore architettonico, non decorativo. In mancanza di un’architettura, un affresco viene assimilato sempre più ad un gigantesco dipinto da cavalletto, esposto con la sola tela, così come il pittore lo ha realizzato sul telaio, con un profondo fraintendimento delle sue specificità d’origine. La situazione è resa ancor più incoerente dalla eccessiva frammentazione delle tinteggiature al di sotto, che devono, nell’ordine: riprendere il colore delle pareti, per la fascia orizzontale dal suolo al margine del dipinto; riprodurre verticalmente gli stipiti della porta aperta nel Seicento, e che continuano in alto confondendosi incongruamente con l’imbotte della porta stessa: porta non più esistente, ed oggi la parete di tamponamento nella sua parte alta (quella che sta sopra la fascia inferiore e che si insinua nel dipinto) è tinta di un color bianco grassello, ed è a sua volta contornata da un’altra fascia che non si comprende cosa rappresenti. Si aggiungano le stuccature scure sul margine inferiore del dipinto, particolarmente visibili a sinistra, e davvero abbiamo una serie di soluzioni che si contraddicono e che producono un patchwork incomprensibile. Ci si domanda per di più se non converrebbe ricondurre il tutto ad una soluzione “minimal”, riprendendo le dimensioni della porta originale quattrocentesca, dal momento che le funzioni di quella seicentesca sono del tutto cessate, e che comunque si trattò di un intervento distruttivo e deturpante, perpetrato inoltre quando la situazione del dipinto murale era del tutto diversa. Il tutto è reso ancor più inaccettabile dal madornale elemento di metallo nero che alberga l’illuminazione del dipinto, brutalmente incompatibile per materiale, forma e colore con quanto vi sta sopra. Non discuto la funzionalità meramente illuminotecnica, ben realizzata dalla Targetti Sankey; ma mi sembra inconcepibile che l’illuminazione del Cenacolo leonardiano venga affidata ad un oggetto di tanto stridente con ogni altra componente ambientale. A mio parere, è urgente trovare una soluzione diversa, e anche se dovesse risultare visivamente più “antiquata”, pazienza; non potrà che essere comunque migliore di quella attuale. Nella situazione presente, il restauro del Cenacolo per me non può considerarsi finito; perché restaurare significa anche proporsi un’operazione globale, da condurre a termine seguendo un’idea progettuale. Il recupero del dipinto non può dirsi completo se non all’interno di una discreta operazione di riassetto ambientale.* Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Autore: Giorgio Bonsanti *